Capitolo XX

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Nella sua carrozza André invece si portò le mani tra i capelli e vi si aggrappò con forza.

Li sfregò nervoso come a volersi ripulire di tutti i suoi più sudici pensieri.

Si sentiva un verme e ripiegato su sé stesso, li tirò forte, tanto da avvertire il dolore della cute riverberarsi in tutto il corpo.

Quella ragazzina lo stava facendo impazzire e avrebbe voluto picchiarla solo per questo.

Lo leggeva dentro e poco c'era mancato che non le saltasse addosso svelandosi per quel che era per davvero: il mostro del suo sogno, che mentre gliene parlava, s'era eccitato e avrebbe voluto sbattersela lì nella carrozza facendole avverare tutte le sue paure.

Ma era troppo presto, troppo presto per non rischiare di vedersela scappare via dalle sue mani, troppo presto per trascinarla nel suo mondo sordido e malato.

Si rizzò di nuovo nelle spalle e si poggiò al sedile: sì, prima doveva essere sicuro che fosse sua davvero e solo dopo l'avrebbe spinta a fare tutto il resto!

Lei doveva desiderarlo, desiderarlo con tutte le sue forze e annullarsi a lui completamente.

L'aveva mandata via per questo o un altro secondo in più e non avrebbe più risposto di sé stesso.

Ma lo sentiva ancora quel desiderio stridere sotto la pelle, quel giorno doloroso, insaziabile, stremante.

Energia in accumulo di cui disfarsi, una pericolosa miccia inesplosa che gli batteva dentro.

Il suo inguine ruggiva rendendolo bramoso e lui conosceva solo un modo per saziarsi.

Così, non perse tempo: gridò al cocchiere un'altra direzione e la carrozza deviò dopo un secondo.

Si diressero alla periferia della città, proseguendo per alcuni sentieri di campagna e dopo, oltre un cancello aperto per un lungo viottolo alberato, che tra la pace delle fronde rendeva quel posto più intimo e nascosto.

In fondo si ergeva una ricca residenza fastosamente ornata, con una sontuosa scala in marmo fiancheggiata da nudi in pietra e colonne ordinatamente in fila, lungo le due ali aperte del loggiato.

Scese dalla carrozza e si soffermò a guardarla.

Ci mancava da parecchio tempo ma mai come in quel posto si sentiva vivo veramente.

Lì non doveva mascherarsi e poteva essere sé stesso fino in fondo.

Batté il chiavistello dell'ingresso ed il portone gli fu aperto su un ampio vestibolo con lampadari di cristallo.

L'atmosfera era serale: i tendaggi di un rosso vermiglio offuscavano le vetrate e i candelabri erano accesi sebbene fosse giorno.

La luce era aranciata, suadente e confortante.

Era a casa finalmente! ed esalò un respiro.

Il maggiordomo che gli aveva aperto gli rivolse un saluto rispettoso indicandogli il salotto alla parete: divani e poltrone in stile vittoriani, di fronte ad un bancone lungo in legno lucido e pregiato.

Il tutto dava quasi l'impressione di un sontuoso albergo, o di un club privato riservato a pochi.

Si accomodò ed aspettò impaziente.

Era solo.

L'orario delle visite indiscrete non era certo quello e lui si gustò quell'aura di silenzio in santa pace.

Una donna di bell'aspetto, formosa ed elegante arrivò dopo un istante.

"Oh oh ma quale onore?" Lo accolse sfregandosi le mani e che con un sorrisetto impertinente in viso, pareva lo conoscesse ormai da sempre.
"Mi è stato detto del tuo arrivo e quasi non stramazzavo al suolo!" Lo salutò infatti cinguettando.

ɪʟ ᴍᴏsᴛʀᴏ ᴅᴇɪ ᴍɪᴇɪ sᴏɢɴɪ ~ 𝐼𝑙 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎𝑡𝑡𝑜Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora