Capitolo LVIII

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Andrè’s pov:

Non avrei mai immaginato che arrivasse a tanto ma la guardo e so per certo che non sta fingendo. I suoi occhi sono disperati e la sua mano ben salda sul coltello che adesso sta impugnando.

È un animale ferito in questo istante e quindi, faccio esattamente ciò che dice e lascio stare sua sorella sollevando in alto le mie mani. 

Resto fermo e cercando di evitare qualsiasi movimento brusco che la possa spaventare. 

Temo infatti che possa dare seguito alle sue minacce solo per punirmi.

E devo ammetterlo: ho paura e come non ne ho mai avuta in tutta la mia vita.

È questo che si prova?

Tremo e il mio stesso stomaco si contorce.

Faccio fatica persino a respirare.

Passo da lei al coltello e la sola idea che possa ridiventare nuovamente quel impalpabile tormento che è stata fino a prima di incontrarla, mi fa male e mi sta facendo già impazzire.

A stento mi lascia un minimo di lucidità per controllarmi. È lei che sta brandendo quella lama ma sono io a sentirmi come appeso a un filo.

Me la sento premere pure contro la mia gola. E sentimenti che non ho mai provato prima stanno subissando il mio cervello togliendomi ogni capacità di ragionare.

Sento ansia, paura, smarrimento, impotenza,  frustrazione, tutti in una volta sola.

Ogni mio neurone ne è divorato e non riesco più a pensare.

Cosa si fa in questi casi? 

Come mi devo comportare?

Voglio strapparle quel coltello dalle mani ma è una voragine quella che mi si è aperta in testa e non riesco a mettere nemmeno due pensieri in fila.

La mia mente è vuota e si rifiuta totalmente di collaborare.

A malapena riesco a vedere dritto davanti a me e a rimanere concentrato sulla sua figura.

“Posa quel coltello!” Dunque provo a dirle: “Vedi tua sorella sta bene e non c’è più bisogno che tu commetta una follia per colpa sua. E poi, non se lo merita dopo quello che ti ha fatto!”

Ma accidenti a me, peggiorando solo le cose, e ascoltandola aggredirmi non appena smetto di parlare.

Grida e stride come gesso sulla lavagna, ed io rabbridisco avvertendo pure il sangue gelarmi nelle vene.

“E tu invece? Tu mi meriti?” Mi urla in faccia con tutto il fiato che possiede: “Rispondimi!” Poi pretende dal momento che non lo faccio: “Tu mi meriti dopo tutto il male che mi hai fatto e che mi stai facendo ancora? Oppure sei così maledettamente ipocrita da non rendertene conto?”

Scrollo la testa e chiudo gli occhi: non riesco a sopportare il modo in cui mi sta guardando adesso. Vedo orrore nei miei confronti e la cosa non mi dà piacere come le altre volte.

Mi accusa. Mi lacera le orecchie. Piange. Ha il viso tutto arrossato e lo schiaffo che le ho dato, è ancora così evidente sulla sua guancia che anche la mia coscienza mi si rivolta contro. 

Perché è vero, sono io il cattivo della storia ed è soltanto per colpa mia che lei è arrivata a mettere in discussione perfino la sua stessa vita.

L’ho spezzata e vedo perfettamente ogni singolo frammento in cui l’ho ridotta.

“No, non ti merito neppure io!” Perciò le dico: “Così come non merito nemmeno di baciare la terra sulla quale tu cammini!”

Decisamente la verità per cui dovrei lasciarla andare se fossi un bravo uomo, ma non lo sono, e non appena i miei occhi ritornano a guardarla, accantonando di nuovo tutti i miei peccati alla stessa velocità di un battito di ciglio. 

ɪʟ ᴍᴏsᴛʀᴏ ᴅᴇɪ ᴍɪᴇɪ sᴏɢɴɪ ~ 𝐼𝑙 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎𝑡𝑡𝑜Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora