Capitolo LII

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E adesso come poteva rinnegare ciò che aveva udito?

Come poteva ancora fingere che lui non fosse un mostro?

Omettere quelle parole abiette pronunciate sul suo conto e cancellarle via dalla sua testa come se tutto quello non fosse mai successo?

Come poteva continuare ad amarlo, a venerarlo, a perdersi tra le sue braccia senza temere lui in verità chi fosse, i suoi pensieri, cosa desiderasse, cosa custodisse nel profondo della sua anima dannata?

Si sarebbe chiesta sempre chi dei due le stesse accanto, chi dei due fosse a parlarle, se lui o la sua bestia?

Lui, effimero come la più seducente delle tentazioni ma anche letale, infliggendole la più crudele delle morti.

Lui, il suo più sordido peccato, il suo flagello, la sua condanna, il suo tormento fin dall’inizio, ed ora, la sua fine, dopo averle strappato tutto e fino all’ultimo rimasuglio di sé stessa: la testa, il cuore, il corpo, l’anima e le sue stesse ossa, riducendola a pezzi come una carcassa vuota.

Senza lasciarle niente: sventrandola della sua innocenza e delle sue illusioni. Rubandole i suoi sogni e spegnendola come un cerino.

Un soffio sulla sua ingenua stupidità per la quale era riuscito sempre a raggirarla, a manipolarla, a soggiogarla, a condizionarla con l’inganno di una maschera ben costruita ad arte sul suo viso.

Perché così si sentiva: morta, spenta, un guscio vuoto e ora persa in un limbo privo di emozioni. Spezzata al punto tale da non provar più niente e ad occhi aperti, fissa nello shock provocato da quella verità agghiacciante.

Chiusa in un bozzolo di dolore da cui si rifiutava di sgusciare nuovamente fuori. Giacchè solo così si sarebbe potuta schermare dalle brutture della vita: da lui che aveva calpestato il suo universo facendone cenere sotto le sue belle scarpe lucide e costose: sabbia che veniva spazzata via dalle onde con irruenza.

Da lui, che il destino aveva voluto mettere sulla propria strada per poi travolgerla e lasciarla in fin di vita come un povero randagio.

Da lui, che persino le sue lacrime le sembrava le avesse tolto, rubandole anche quell’ultima illusione di potersi liberare almeno in parte, di quel veleno che le aveva distillato goccia a goccia.

Intanto, stavano rientrando con la carrozza che li aveva attesi laddove erano scesi al loro arrivo. Michel aveva portato a termine ciò che si era prefissato e lei rivolta al finestrino, neppure lo guardava.

Ora non sapendo infatti se ringraziarlo o dargli contro, perché forse, avrebbe preferito mille volte vivere in quel limbo di ignoranza, piuttosto che provare quel dolore che la stava dilaniando dentro.

Ma sospirando: “Dovevi saperlo Donna!” Le disse lui a un certo punto, come a volersi scusare per ciò che aveva fatto, come a volersi far perdonare per come la vedeva ridotta adesso.

A differenza sua, guardandola senza mai distoglierle da dosso i propri occhi ed assorbendo a pieno quella sofferenza che sicuramente le leggeva in volto.

E tuttavia, con il silenzio che fu l’unica cosa che seppe dargli in cambio e che continuò a tenere le sue labbra sigillate pure durante quel viaggio di ritorno, non avendo nulla più da dire sull’argomento, e certamente, non avendo alcuna voglia di commentare girando il coltello nella piaga.

Non vedendo invece l'ora di arrivare al campo e di potersi rintanare nuovamente nel suo guscio chiuso: a commiserarsi da sola sui propri errori e per annegare in quelle lacrime che ancora non si decidevano ad uscire. Ma che avvertiva lì, roventi e calde, a corroderle la gola e a pungolarle gli occhi come spilli con la loro essenza acida e salata.  

ɪʟ ᴍᴏsᴛʀᴏ ᴅᴇɪ ᴍɪᴇɪ sᴏɢɴɪ ~ 𝐼𝑙 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎𝑡𝑡𝑜Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora