XIV

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Fu giorno.
Un'intera notte passata fuori, nessun messaggio, nessun biglietto, niente. Ero uscita senza dir loro nulla, quanto potevano essere in pena i miei per questo...Sparire così, tutto assieme. Conoscendoli avranno già messo in allarme tutta la città, non ci sarà una sola persona che non mi starà già cercando.

Fu allora che capii, i miei occhi si velarono di malinconia.

– Cosa c'è che non va, bellezza? – di sicuro Aeglos era un ottimo osservatore per essersi accorto così velocemente del mio repentino cambio di umore.

– I miei genitori, devo tornare da loro.

– Dimenticali – intervenne Maraud. Gelò l'aria, con una sola parola, come se questa avesse il potere di farlo.

– Cosa?

– Hai capito bene, dimenticali – i suoi occhi color del ghiaccio contribuirono a rendere più raggelanti quelle parole.

–  Caspita, questo è un problema. Non possono trovarla. Sapere di lei comporterebbe sapere di noi. Non voglio sembrarti egoista ma ha ragione Maraud, non devi vederli mai più – cominciò a riempire quel silenzio gelido, Aeglos, con il suo parlare nervoso e veloce, senza prender fiato, poi continuò: – Insomma che dirai? Ciao mamma, scusa non posso più tornare a casa perché adesso sono diversa, sono mutata in qualcosa che non potresti comprendere e accettare?

Rimasi sempre più sconvolta, aveva ragione e lo sapevo, ma come potevo accettarlo.

– Dobbiamo trovare una soluzione – grattandosi i capelli biondi, Aeglos andava avanti e indietro.

– Uccidiamoli.
Quella parola contestualmente uccise me, possibile che Maraud fosse così cinico?

–  NO! Cosa stai... come puoi, no! Non puoi, non c'entrano niente in tutta questa storia, non puoi farlo. E non ha senso, ucciderai tutta la mia famiglia, tutti i conoscenti, tutti quelli che conoscono me che  indagheranno su questa storia, non sarebbe il modo migliore per non farvi scoprire, non ha senso. Tu non puoi parlare... – fui interrotta da Lui nel mio nevrotico e spaventato sproloquio che mi aveva indotta a tremare incontrollatamente.

– Giusto. C'è solo una cosa da fare – intonò quelle parole non ammettendo nessuna replica, aveva calcolato tutto, i suoi erano ordini, non consigli – loro devono convincersi che tu sia morta, in questo modo non ti cercheranno più e questa storia verrà chiusa per sempre.

Sgranai gli occhi sentendomi morire dentro. Colma di angoscia materializzatasi per le parole che aveva appena pronunziato. Avrei dovuto abbandonare la mia famiglia, perderla per sempre, non l'avrei mai più rivista.

Se me lo avessero detto in una delle mie tante crisi adolescenziali mentre stavo a litigare con loro, forse avrei pure potuto prenderla bene  -momentaneamente  - ma così, senza neppur poter dire loro addio, senza poterli abbracciare un'ultima volta, perderli e basta.

Fa più male di quanto si possa immaginare.

È una violenza a me stessa, un insulto alla mia vita. Una violazione della mia intimità, della carne più debole, del tessuto più fragile e delicato ch'era in me.

Questa situazione riuscì a colpirmi dentro così forte facendomi sanguinare dolore, amarezza, frustrazione, rabbia, disperazione.

Non può accadere a me, non voglio che succeda, non voglio e non posso accettarlo. Perché io? Tanto valeva essere uccisa, sarebbe stato meglio, ripetevo sempre, più volte, quella domanda ma non vi era mai alcuna riposta. Non avevo potuto scegliere niente, qualcosa o qualcuno lo aveva fatto al mio posto.

Rovhtàri e la dimora delle ombreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora