Doppio sogno (I)

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Da quando abbiamo iniziato a uscire con Philip e il resto del Das Pack, le mattine sono cambiate. Un sonno pesante si è calato sulle palpebre di Marco e, grazie alla forte complicità dei dopo sbronza, gli rende impossibile risvegliarsi al gorgheggio della macchinetta del caffè, seconda schiumatura.

Io stessa, appena il raggio di luce buca l'oblò, assaporo quei minuti di silenzio con tranquillità, li sfrutto per svuotare il cervello di tutte le chiacchiere senza senso che le meningi assorbono nelle serate universitarie. Non immaginavo quanto potesse essere difficile gestire una vita da sobri, quando il resto della compagnia ha deciso di immolarsi al dio dell'alcol. Si assiste a un tale concentrato di idiozie e manie di onnipotenza da perdere fiducia nel genere umano, perfino in Marco.

Solo quando dorme, scomposto e rumoroso, mi sembra di ritrovare una goccia del suo vecchio essere: nella bocca che impasta perché immagina di mangiare, nel respiro che si appesantisce per colpa dell'alcol, negli occhi che si stropiccia perché non si vuole alzare. Una goccia che si perde nell'oceano, perché in tutte le altre parti della giornata, quelle poche uscite che condividiamo con il Das Pack, mi sembra di avere accanto uno straniero.

Quando ero a Viacampo, ho sempre pensato che una bolla avvolgesse il binomio, che con gli anni avessimo costruito un nostro mondo. E se un estraneo avesse provato a varcarlo, la nostra bolla ci avrebbe difesi, ispessendo la sua superficie in un roveto di stalagmiti. Eravamo io e Marco contro l'universo intero. Qui invece, sembra che nella bolla ci sia il Das Pack e quell'estraneo, quello che tenta di entrare a gamba tesa in suolo straniero, sia proprio io. Forse, se non avessi rotto il bacio dell'altra notte, Marco non avrebbe cercato ogni pretesto per avvicinarsi ai suoi amici e allontanarsi da me.

«Non resto per cena» mi dice una sera, appena rincasato.

Ho trascorso tutto il giorno sul davanzale della finestra, con le gambe piegate e il naso schiacciato al vetro dell'oblò.

«Una cena di corso?»

«No» dice lui. Ha resuscitato una giacca da completo, fatto sbucare da un cilindro una cravatta a pois, anziché un coniglio. «Te lo ricordi il professor Krankenheit?» Il rettore di medicina, l'amico di famiglia di suo padre. Marco lotta con i due lembi della cravatta, quasi si strangola quando li tira in un nodo asimmetrico.

«Aspetta, ti aiuto» scendo dal davanzale e infilo le unghie nella stoffa, per disfare quel groviglio e ripartire da zero. «Vai a cena con lui?»

Se le mie priorità fossero ordinate in una hit parade di canzoni, il professore Krankenheit giacerebbe nel cestino degli scarti, tra i tormentoni degli anni Quaranta. È solo che il silenzio mi pesa e sentire la voce di Marco mi ricorda di averlo vicino.

«Ha improvvisato una specie di buffet per alcuni studenti e mi ha chiesto di fare un salto» mi spiega. Nodo terminato. Corre allo specchio, si sistema i ricci ribelli con una passata di mano. «Come sto?»

Annuisco con un sorriso a labbra tirate, a dirgli che è perfetto. Se non lo conoscessi, lo scambierei per un neolaureato con il massimo dei voti.

«Spaccherai un sacco di cuori, camuffato così» scherzo.

Non voglio che questa uscita gli pesi, come non volevo fargli pesare quella di ieri, dell'altro ieri e dell'altro ieri ancora: che fosse una cena intima con il Das Pack, o un aperitivo con i compagni di corso o una serata di studio per guardare un filmino sulla vivisezione di una rana.

«Tu che fai?» mi chiede Marco, ora che ha indossato il cappotto e fruga nelle tasche perché ha perso le chiavi.

«Non serve che le porti» gli dico. Crede davvero che esca in una città dove non conosco nessuno? «Se non lavoro alla tesi, Crodelia mi porterà in una conceria per farsi un cappotto di pelle umana. Ti basterà bussare quando arrivi.»

Binomio - 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora