Quando Candido vede nero (I)

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«Siamo un disastro.»

Nicola toglie lo sguardo dal binocolo e tende un orecchio sospettoso.

«Da quando tu ed io siamo un noi?» mi chiede.

Straluno gli occhi al cielo. In un giorno qualunque Nicola Ulivieri ha scoperto di possedere una vena ironica e da allora non fa che punzecchiarmi di battutine.

«Hai capito benissimo di che parlo» sussurro. Non abbastanza piano, perché la coppia che divide il palchetto con noi mi rimprovera con il soffio di un aspide. Che hanno da lamentarsi tanto, se siamo alla pausa tra due atti?

Nicola ripone il binocolo sui pantaloni eleganti che ha indossato per l'occasione e tossisce di proposito per infastidire i nostri due compagni di teatro. Oltre alla vena ironica, ha sviluppato anche quella irriverente e credo di dovermene assumere la responsabilità. Sto trascinando Nicola Ulivieri, il perfetto primo della classe, sulla cattiva via della maleducazione.

«Capito» mi dice. «Hai sviluppato una sorta di transfert con gli attori e adesso ritieni di far parte della loro compagnia teatrale. Per questo parli di un noi.»

«Io e Marco, Nicola.»

Lui schiocca la lingua contro il palato.

«Come ho fatto a non pensarci?»

La fine dell'intervallo mi condanna al silenzio. Siamo nel piccolo teatro di Nomi, nel palchetto più scomodo ed economico del semicerchio. E vediamo il Candido, tratto dall'opera di Voltaire. Il protagonista era così ottimista da credere nel principio del bicchiere sempre pieno anche nella più nera sventura, ma se conoscesse il binomio, perfino lui, spiazzato dalla nostra debolezza, cadrebbe nel baratro del pessimismo e inizierebbe a vedere nero.

«Lo sai, Nicola» riprendo a dire, mentre rubiamo qualche stuzzichino al buffet di fine spettacolo. «Io e Marco siamo come l'ultima sigaretta di Zeno.»

Nicola afferra una tartina al prosciutto e lo stuzzicadenti gli scivola di mano.

«Ma non lo Zeno artista!» ridacchio. Già, perché ormai Nicola Ulivieri è il mio psicologo gratuito e si è dovuto sorbire anche le paranoie sul pittore. «Zeno quello del libro di Svevo.»

Non che Nicola commenti mai. Il più delle volte si limita a scuotere la testa e a sospirare, esasperato dalla mia idiozia. Adesso in tutta risposta mangia e punta il vassoio con le tartine al salmone e pomodoro.

Io non mi rassegno e continuo il monologo: «Non riusciamo a mantenere il nostro "Non ci vedremo per...". Ogni volta ci ripetiamo che sarà l'ultima e rispetteremo i termini, che ci basta un tiro potentissimo da assaporare e poi riusciremo a dividerci. Ma la verità è che il solo aggettivo "ultimo" non fa che crescere la voglia di rivederci.»

«E non è così da sempre?»

A volte Nicola parla, spara una sentenza per ricordarmi la mia stupidità.

«Adesso più di prima» confesso. Non ne capisco la ragione precisa, ma io e Marco non facciamo che cercarci, rompere il gioco, inventare auto-giustificazioni per non sentirci in colpa. E così c'è una telefonata per un numero sbagliato, o una visita a Bologna perché un artista sconosciuto, amico di Saul, ha inaugurato la sua prima mostra di teschi amletici, o un treno preso per disattenzione, uno di quelli che doveva portare a Roma e invece no, è arrivato a Nomi.

Il tempo nel mese successivo non si misura più in ticchettii di lancette, ma in sfide lanciate e perse, in alibi che creiamo per sentirci meno in colpa quando cediamo alla tentazione.

Alla fine di aprile un tiepido sole illumina le seggioline rosse; e io e Marco ci svegliamo stanchi, fiaccati da quel gioco che ci frusta giorno dopo giorno, senza che sia possibile vederne la fine. E gli attimi in cui ci incontriamo... sono troppo miseri per dissetarci della nostra reciproca presenza.

Binomio - 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora