Uelcom (I)

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Anche se ho ormai preso la decisione di partire, numerose pedine, prima abbandonate in terra neutra, marciano in guerra contro il regno "Adami", con l'unico obiettivo di ostacolarmi. A guidare l'esercito nemico è niente meno che mia madre, un bravissimo comandante militare, visto che ha addobbato la strategia con delle cannonate capaci di perforare il titanio.

«Signorina, non funziona così la vita!» ripete a mitraglia nella prima settimana di gennaio, quella in cui dovrei dare gli esami di letteratura con Vivi e Crodelia. «Hai combinato un guaio, un casino gigantesco.» Il coma etilico, un pallino fisso nelle sue manfrine. «E io ti dovrei premiare con una vacanza in Germania, così ti togli lo sfizio di sbevazzare con il tuo amichetto d'infanzia?»

La prima cannonata va a segno e fa traballare la decisione.

«E i soldi? Paghiamo un appartamento a Nomi per risparmiare e tu sperperi il patrimonio per l'Erasmus di un altro?»

La seconda cannonata raddoppia di potenza, l'onda d'urto è tanto spiazzante da farmi riparare in trincea, in attesa di un soccorso. L'aiuto, con tanto di trombetta d'annuncio, arriva da parte di un generale inatteso: mio zio.

«Ascolta, Paola» cerca di farla ragionare. «Dovresti darle una pausa. È sempre stata una figlia modello, la prima della classe, una ragazza responsabile. Non puoi condannarla a vita per un solo errore.»

Mio padre, prima barricato nel silenzio – o forse ancora in terra neutra ad assistere allo scontro con tanto di popcorn – decide di dargli man forte.

«Marco non mi piace.» Aspetta, papà, non dovevi aiutarmi? «E non mi fido di lui, ma qui sono successe troppe cose, con quel ragazzo in classe con loro.» Biagio. «Credo che le farà bene cambiare aria per un po'.»

"Sempre, Marco ha detto per sempre" ricorda il grillo.

Pur di fuggire, ometterò questa piccola precisazione temporale al concilio dei parenti.

Alla fine, i due uomini, con la collaborazione di Simone che si scusa per avermi spacciato litri di tequila, convincono il generale nemico e, nell'arco di poche ore, il concilio sigla all'unanimità il permesso di partenza.

«Al primo sgarro vengo a prenderti e ti riporto a casa per le orecchie» mi minaccia mia madre con il dito puntato.

Nella camera di Marco recito la scena un miliardo di volte. Corrugo la fronte per incattivire i lineamenti; ingrosso il tono per darmi un'autorità suprema. E Marco recita la mia parte.

«Va bene, mammina» dice con una voce da donnetta. «Non lo faccio più.»

Nei mesi di distanza e nei chilometri che accentuavano la lontananza tra Nomi e Friburgo, avevo dimenticato quanto potesse essere leggero.

«Ho chiamato Biagio, ieri» gli dico, mentre smanettiamo col computer per creare una compilation da ascoltare in viaggio.

Lui smette di aggiungere file sul CD-ROM e mi fissa con un sopracciglio alzato, a metà tra il "Non avresti dovuto" e un "E alla fine che ti ha detto?".

«Niente» sintetizzo. Con un sospiro mi arriccio sul materasso del letto a castello, parte inferiore. «Il telefono è staccato e continua a partire la segreteria.»

Marco sembra sollevato da quella risposta, è come se stesse cercando di tagliare i contatti tra me e la famiglia Iachemet. In un autogrill tra Friburgo e Viacampo ha comparato una grande campana, una cella di vetro da buttarmi sulla testa, per evitare che le minacce dell'esterno mi riducano in mille granelli di polvere. Si illude che cancellare Biagio dai pensieri sia la chiave per farmi stare bene. Non sa che tarli e cimici si infilano sotto il vetro della campana e mi rivestono in uno sciame, anche quando mi crede al sicuro. Chiusi nell'abitacolo della mia prigione, non smettono di mordermi la pelle e ronzare i soliti vecchi discorsi:

Binomio - 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora