Peter Pan (II)

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Se l'esito della missione è favorevole, non bisogna dare il merito a Dio, quanto più alla caparbietà di Marco che lo porta sul pontile alle otto di mattina e lo convince a mantenere la posizione fino alle due di pomeriggio.

Quel pontile diventa l'unico ritaglio di pace in cui siamo liberi di essere noi stessi. Mi sento a mio agio a ignorare come Marco passi il resto della giornata, non mi interrogo sul perché avesse programmato la sveglia. Al tempo stesso, quando siamo nel mondo esterno, ci imponiamo di non restare attaccati come gemelli siamesi.

La conseguenza di questo gioco giunge inevitabile: passiamo giorni interi attraccati alle doghe del pontile, poche ore a contatto con la terraferma. Siamo marinai che soffrono la mancanza dell'acqua e cercano in ogni modo di prendere il largo.

Anche quando siedo in aula davanti al professore di latino, mantengo una tranquillità da premio Nobel. Mentre sciorino una nozione dietro l'altra, sembra che stia parlando di una vacanza in crociera, non di letteratura, e se ci riesco, devo ringraziare Marco. Un angolino di cervello è inchiodato al pontile. Ed è come se tra le dita, accostata all'orecchio, tenessi una conchiglia e ascoltassi l'echeggiare del lago.

«È proprio vero che quando uno studente passa l'esame della mia collega, è praticamente pronto per il dottorato» esagera il professore.

Annota il mio secondo Trenta e Lode sul libretto. La collega è Crodelia, l'incubo che nell'aula adiacente sta massacrando Tania, Emina e Lisa.

«La ringrazio, professore» gli porgo la mano e lui elogia il mio voto, mi accompagna addirittura alla porta.

Mentre esco dall'aula, trattengo i nervi saldi e mi siedo sulla panca di attesa, sperando che Tania faccia capolino dall'aula della professoressa De Mon.

Ho lasciato Marco a Viacampo e resterò quindici giorni a Nomi, per gli esami, ma con la mente sarò sempre da lui.

E pensare che oggi voleva accompagnarmi!

La professoressa Crodelia compare sull'uscio dell'Aula 005; e tiene il broncio lungo, il registro degli interrogati sottobraccio e il tacco dodici talmente premuto sulle piastrelle da crepare il pavimento.

«Che cos'è questo rumore?» domanda.

Squillo di trombetta, un palloncino scoppiato per un gesto maldestro, una manata per toglierselo dal viso.

«Sono venuto a fare il tifo per te, Nanà!»

È conciato come un pagliaccio alla biglietteria di un circo, solo che al posto del distributore di popcorn tiene un mazzo di girasoli. E indossa una maglietta con la scritta "Vai, Nanà", due ceppi di palloncini rossi sotto le ascelle.

Crodelia mi fissa divertita, una smorfia da "Chi lo avrebbe detto?". Ondeggia nel completo di kashmir e si apposta al mio fianco.

«Lei mi sorprende. Adami, lei mi sorprende davvero.»

Fa che non sia un modo carino per ritirarmi il Trenta e Lode di fine novembre. Ma poi Crodelia mi strizza l'occhiolino:

«Interessante binomio di ragione e sentimento» commenta.

Una secchiona con una divertente vita sociale, già, interessante. Ma non è la sua logica a scaldarmi il cuore. È l'impiego di quella parola, scelta da lei con noncuranza.

«Già, un binomio» le rispondo.

Avrei dovuto dire "Interessante sì", oppure "Mi scusi per il rumore". E invece ho risposto "Già, un binomio", frase che per una sconosciuta equivale al nulla.

«Voi tre, dentro! Devo ancora dipanare il lume dell'intelligenza dalla vostra ignoranza.»

Crodelia costringe Tania e le mie colleghe a tornare sul patibolo, io raggiungo Marco, cercando di fingermi discreta.

«Credevo dovessi restare a Viacampo» gli sussurro. «E studiare per i tuoi esami.»

Inutile che faccia lo sguardo da tonto per impietosirmi. Oppure il ruffiano, ora che ha premuto il mazzo di fiori nelle mie braccia. Non ha badato a spese, sono talmente pesanti che rischio di inginocchiarmi a terra.

«E io ti ho ascoltata» garantisce lui. Sottobraccio scendiamo le scale che dall'ultimo piano ci porteranno all'uscita di Lettere. «Ho studiato quindici minuti senza pause, ma poi mi sono teletrasportato al nostro pontile, ad aspettarti.»

«Marco! Sai benissimo che non tornerò a Viacampo per quindici giorni.»

Respiro il suo divertimento. Si mescola al profumo dei libri e della carta vecchia, una scia che passa sotto la soglia della porta di vetro, chiusa.

«Infatti! Mi avresti avuto sulla coscienza, se fossi rimasto lì!» Non ci saresti proprio dovuto andare, sorrido, mentre cambio il braccio che regge i girasoli. «Sarei finito deperito e intirizzito quanto un cubetto di ghiaccio. Allora ho pensato di correre da te. Complimenti per l'esame, Nanà!»

Mi spiccica un bacio sulla guancia. E mi sembra così sbagliato che arrossisco a testa bassa.

«Grazie» gli dico.

Quando ci buttiamo nel gelo di Nomi, vorrei che la classica nebbia del paese si innalzasse dal fiume e sciamasse intorno ai nostri corpi.

«Quando hai inventato la storia delle seggioline rosse e creato il nostro mondo parallelo, hai commesso una grave mancanza, Nanà. A Nomi non esistono seggioline rosse e nemmeno pontili. Come facciamo a congelarci ore su ore in riva al lago?»

Dimostra di non avere capito il senso della storia. L'obiettivo era non perdersi mai, sapere che dovunque ci troveremo, esisteremo sempre l'uno per l'altra. Ma Marco è di un altro parere.

«L'assenza di navicelle spaziali giustifica la mia invasione di campo nel mondo esterno.»

Camminiamo a caso per Nomi e solo in questo momento mi rendo conto che i piedi ci hanno portati in automatico al parcheggio principale. E arrivati a questo punto, non mi serve sentire le successive parole di Marco – tanto gli esami li inizio a metà febbraio, a casa non riesco a studiare – mi basta vedere al di là del finestrino due borsoni da basket colmi di vestiti. E mi sento divisa in due. La ragazzina che è in me scalpita che sì, c'è ancora del tempo per me e Marco, possiamo ancora stare insieme, non sarò mai pronta a liberarmi di lui; ma una piccola donnetta occupa la parte più nascosta del corpo, ha la minoranza, eppure insinua un sospetto: non dovevamo forse io e Marco imparare a crescere lontani, a forgiare un equilibrio di ferro, un salvagente che ci impedirà di affogare?

«Dovrai avere il permesso di Tania» premetto.

E ancora salti carpati da parte della ragazzina.

«Dovrai lasciarmi studiare» aggiungo.

È troppo importante il mio futuro per relegarlo sempre al secondo posto con una medaglia d'argento.

«Dovrai permettermi di uscire con Emi e Lisa.»

Il sorriso si blocca, proprio mentre Marco tira fuori dalla Mitsubishi il primo borsone. E adesso mi fissa imbronciato:

«Nanà, io non ti ho mai impedito di uscire con le tue amiche.»

Vero, nel periodo che ha passato con me, quando ancora dovevo imparare a convivere con la sua presenza, non ha mai speso una parola contraria ai ritrovi a Tre Zenit.

«Sono io che l'ho impedito a me stessa» puntualizzo. «E tu dovrai impedirmi di impedirmelo.»

Adesso sono due i borsoni caricati in spalla e di nuovo un sorriso alla Stregatto si fa strada sul suo viso. Marco si piega di un centimetro, l'abbozzo di un inchino per non perdere l'equilibrio:

«Signorsì, o capitano mio capitano!» strilla.

Dichiaro terminato lo scontro tra la donnetta e la ragazzina che mi compongono. Mentre la più giovane volteggia e soffia trombette, aiuto Marco a portare una borsa e lo guido verso casa. E credo di essere felice.

Binomio - 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora