Uno scheletro in cantina (I)

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Nina – 2 buoni concessione, 3 pago penitenza;

Marco – 3 buoni concessione, 3 pago penitenza.


I cinque cartoncini bruciano nella tasca dei jeans come i soldi del diavolo. Per settimane li infilo nei pantaloni, attenta a non perderli quando mi tolgo ogni indumento nello studio di Zeno. Da quel giorno in stazione, Marco si è eclissato in un silenzio tombale, e proprio l'assenza di un suo segnale mi conferma di averlo ferito. Prima della comparsa di buoni concessione e pago penitenza, credeva che il gioco fosse un capriccio e non pensava che anticipare i nostri incontri potesse essere un problema.

Imperterriti, continuavamo a rompere la parola data, credendoci superiori alle regole che ci eravamo imposti. Ma ora è chiaro che la necessità di crescere, di imparare a essere felice da me, per quella che sono, è un lievito tanto forte da far esplodere il barattolo di contenimento.

Io e Marco ci siamo allenati a provare sentimenti che corrono nella stessa direzione, cosicché un mio attacco d'ira genera una sua arrabbiatura; un mio attimo di felicità una sua gioia. Deve trattarsi di una conseguenza dell'essere cresciuti in parallelo, come abbiamo fatto noi per quasi sette anni di vita. Per questo non mi preoccupo dell'ira di Marco, anzi. Il suo silenzio non fa che gettare benzina sul mio fastidio, confermarmi che sono io a dovermi sentire ferita per aver ricevuto una spalla fredda, mentre mi sarei aspettata un ringraziamento: è o non è la prima volta in cui dirigo la partita?

A farmi infuriare maggiormente è l'insensatezza del suo sms: un mese e mezzo di lontananza. Marco ci ha condannati a un periodo di separazione enorme, un traguardo impossibile da raggiungere. Corro giorno dopo giorno, determinata ad arrivare alla meta, ma più le ore passano, più arranco, e più arranco, più la sfida lanciata da Marco mi fa imbufalire. Vorrei sedermi in mezzo alla pista e impuntarmi come un mulo:

"Hai messo una posta così alta, Marco. E allora sai che ti dico? Io con te non corro! Non mi presento all'appuntamento di metà giugno, non ci vedremo mai e poi mai più!".

Marco mi ha mandato quel messaggio – un mese e mezzo! - consapevole di farmi un torto, e si merita di essere ripagato con la moneta di un torto ancora maggiore. Sa che non durerò a lungo senza di lui e spera che sia io a cedere per prima, a correre a Bologna per annullare questo stupido gioco che ho inventato.

Povero illuso.

Mi trovo nello studio di Zeno, come in molte mattinate nelle ultime tre settimane. Il fatto che il suo atelier sia nell'università rende facile fargli visita tra una pausa in biblioteca e l'altra. Sono aumentati quegli attimi in cui mi congedo dal resto del mondo, gli istanti passati a intrecciare i nostri corpi, senza provare grandi sentimenti.

Zeno ha strane fantasie sessuali e se le accetto è solo per aggiungere un altro punto alla missione "Fare un torto a Marco". Ci sono delle volte in cui l'inconscio sfiora un istante di divertimento, altre in cui resto a terra con le gambe aperte, adagiata sul lenzuolo che Zeno dispone per non maculare d'olio il pavimento della stanza. Stringo quei lembi di tessuto con tutta la forza, mentre Zeno spinge e mi contorce come una bambolina snodabile e io provo una punta di disgusto che mi costringe a gridare.

Zeno scambia sempre quel piccolo strillo per un eccesso di piacere, ma io sono troppo sincera con me stessa per illudermi. È la solita vertigine che spacca lo stomaco e sale, fino al cervello, a ripetermi che non ci tornerò più, da Zeno, non per farmi usare dal suo egocentrismo.

Quando facevo l'amore con Marco, credevo di essere un albero in fiore con una linfa talmente potente da sbocciare persino in inverno; con Zeno mi sono trasformata in un deserto sterile, dalle cui sabbie non germoglierebbe nessuna oasi.

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