Vedrai che partirà (II)

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Quand'ero adolescente, ho imparato a non credere alle promesse di Marco, soprattutto a quelle che dice nella sola illusione di farmi stare meglio. Da Biagio sto ricevendo la proverbiale "spalla fredda", quasi si fosse completamente dimenticato di me. Di tanto in tanto sento il bisogno di schiodarmi dalla mia posizione.

«Dalla vita ho imparato che non bisogna essere troppo rigidi» mi ha detto Nicola, mentre guardavamo un film sul divano di casa mia. «Ma che devo imparare a vedere il mondo da un'altra prospettiva.»

Mi metto nei panni di Biagio, ma quando muovo il piede verso il sentiero del perdono, dei ceppi da carcerato sbucano dal terreno e mi imprigionano a terra. Posso tirare, strattonare, distruggere le unghie nel tentativo di liberarmi: non c'è niente da fare.

Così lotto con me stessa, con quella parte buona che vorrebbe deporre l'ascia di guerra e quella caparbia che preferirebbe mangiare una scatola di chiodi piuttosto che cedere. La parte che però rischia di vincere è la terza, il lato capriccioso che si ostina a pensare a Marco. Ci sono mattine in cui tolgo dal comodino il mio ultimo buono concessione e smanio di stracciarlo. Poi mi ricordo che siamo a luglio e la strada che ci distanzia da dicembre è ancora lunga.

Quanto sarebbe sciocco giocarsi l'ultimo buono, quando ci siamo visti solo qualche giorno fa?

Alla fine è lui a rompere il silenzio e lo fa con lo stesso identico sms dell'altra volta:


Nna, mi dv autjare. Pnic esme, vto nn vedo + nn capisco +


Non intendo scavezzarmi l'osso del collo per correre da lui. Mi prendo invece il tempo necessario e navigo in un brodo di giuggiole, perché Marco Zuccato è al primo pago penitenza e non vedo l'ora di trovare qualche subdola punizione con cui ridicolizzarlo davanti all'intera Viacampo.

Del resto, sono o non sono malvagia?

Riparo a casa di Marco con l'andatura di una lumaca che vuole vincere il record mondiale di lentezza. Ma quando mi auto-invito nel salotto e lo chiamo, non sento altro rumore se non il rimbombare della mia voce sulle pareti. Gli unici occhi che assistono al trionfo sono quelli di Freddie nella gigantografia dei Queen sopra il pianoforte.

«Se tu potessi parlare, chissà quali inconfessabili segreti spiffereresti alle mie orecchie» dico all'immagine e sussulto quando sento un soffio in risposta, un respiro pesante e disperato.

Vuoi vedere che Freddie è una stampa magica come i quadri di Harry Potter?

«Nin-»

«Marco, che succede?»

Lo trovo seduto a terra, nell'angolo tra il frigorifero e la porta, con il viso cadaverico e madido di sudore, il fiato che gli scorre su per la gola come un rigagnolo bloccato da un grande macigno.

Sono un fulmine a gettarmi in ginocchioni accanto a lui.

«Che ti prende? Che hai?» insisto, un'uguale angoscia che mi scalpita nel petto, perché subito mi sono rispecchiata nel suo viso, ho ricordato quei giorni che passavo in bagno, a Nomi, con la schiena premuta contro il termosifone, dominata dal panico.

«Respira, respira piano» gli ordino. Cerco di ricordare come facesse Tania a tranquillizzarmi, ma quegli attimi, nel libro della memoria, sono pagine in inchiostro sbiadito. «Aspetta, ti porto qualcosa da bere.»

«Resta» mi prega Marco, appena accenno un movimento. «Resta con me.»

Eseguo, schiacciando la sua testa al mio petto e accarezzandogli i capelli umidicci, come se fosse un bambino appena fuggito dal mostro di troppi incubi. Lascio che il viso di Freddie vegli su di noi, sul nostro binomio.

Binomio - 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora