Peter Pan (I)

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Ora che ho ritrovato Marco, l'umore disegna una parabola che mi alza da un punto zero a un punto mille. Ci sono attimi di indecisione, attacchi di panico che irrompono senza preavviso, ma Marco impugna un'aspirapolvere capace di assorbire ogni male.

Non so se il merito sia di Marco o di Dio. Se è davvero Dio a decidere la sorte di un'umana, gliene sono infinitamente grata. Nei primi quindici giorni del nuovo anno, dimostra di essere un eccellente tiratore al piattello: quando pianifica il mio futuro, non sbaglia un colpo. Armato di fucile colpisce ogni lattina o palloncino, non si lascia sfuggire una sola buona occasione. E alla fine vince un grandissimo orso di peluche, la felicità, me lo regala senza difetti di stoffa o sbavature di colore.

Quando osservo la bellezza di questo momento, mi ammalo della sindrome di Stendhal, una vertigine dal sapore di euforia: è davvero possibile rialzarsi dopo la caduta. Ed è quasi volare, se a sollevarci siamo in due.

A volte le parole non hanno il potere di descrivere una sensazione. Per questo, quando Valentina mi chiede di spiegarle, non riesco a riprodurre l'intensità dei miei sentimenti.

"Ti sei mai chiesta come sia il primo volo di un uccello, quando impara a dispiegare le ali e a lasciarsi guidare dal flusso del vento?" le chiedo, mentre l'aiuto a togliere le bocce dall'albero di Natale.

Mi guadagno un secco no.

"Credo sia come roteare sulle montagne russe o saltare su un tappeto elastico, così in alto da agguantare un pugno di nuvole e assaggiarle al posto di zucchero filato".

Valentina smette di armeggiare con il serpentone di lustrini e lo butta tutto annodato nello scatolone del Natale. Poi, confusa, si asciuga una gocciolina di sudore dalla fronte.

"Scusa, e che vorrebbe dire?" mi chiede.

Alzo le spalle e tiro uno strato di nastro adesivo sulla scatola per sigillarla.

"È quello che provo, ora che io e Marco ci siamo riuniti" le rispondo.

Valentina mi guarda come se avessi fumato un'intera piantagione di marijuana. Poi si fionda sul divano, uno dei miei biscotti allo zenzero in bocca.

«Se lo dici tu, Nin.»

Il solo pensiero di una riunione tra me e Marco le fa venire attacchi di orticaria. È il motivo per cui non si sforza di capire o forse, se non si è provato questo sentimento sulla propria pelle, diventa difficile immaginarlo.

Quando sono con Marco ho delle molle ai piedi e il salto non si blocca alla barriera di nubi, ma procede ininterrotto oltre l'atmosfera terrestre, verso le stelle, la luna, le galassie, fino a toccare l'universo intero. E mentre volteggio tra satelliti e punti di luce, libera da quel casco bianco spaziale, capisco di non essere sola. Riflessa negli occhi di Marco leggo l'identica ebbrezza che mi fonde all'infinito.

Siamo in alto, in alto come non lo eravamo nemmeno quando stavamo insieme.

E adesso ho un dubbio... farà male cadere?

«Prova a pensare alla tua sbronza più importante» mi dice Marco.

Giornata uggiosa. Siamo seduti sulle seggioline rosse.

«Io mi sono ubriacato talmente tante volte che ho l'imbarazzo della scelta» aggiunge.

Mangiamo Mikado fondenti, fingiamo siano sigarette e in effetti dei nugoli escono dalle labbra quando soffiamo. Ma non è fumo, solo il freddo.

«Non credo di avere mai avuto una sbronza colossale» gli rispondo. Mi guadagno un "Ma per piacere!". «Non una di quelle in cui vomiti l'anima e poi stai male per un mese intero.»

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