Il Louvre chiude alle sette (III)

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Nina – 0 buoni concessione; 1 pago penitenza;

Marco – 0 buoni concessione; 1 pago penitenza.


Le lancette dell'orologio ruotano al contrario. Nelle due ore che seguono ceno con le mie unghie e le pellicine delle dita, oltre che con i grumi di sangue che fatico a togliere dalle labbra. Celeste rimane con me per tutto il tempo. Mi pulisce la faccia con uno straccio inumidito, preme il pacchetto Findus sopra il naso. E lo fa con dolcezza, come una mamma con la figlia che si è sbucciata il ginocchio perché correva troppo in fretta.

In fretta ho corso anch'io, quando ho scelto di raggiungere Marco. Sapevo come avrebbe reagito. E allora perché ho sentito il bisogno di venire proprio qui?

Ora che ho smesso di piangere, sono un concentrato di vergogna e sensi di colpa:

ho rovinato la sua cena con Celeste;

ho fatto la figura della scema;

l'ho messo nei guai.

Prego che Zeno non gli farà del male, perché è ubriaco e ha le braccia forti e potrebbe avere un coltello nello studio, quello che usa per tagliare le tele e – Dio! - non ci voglio nemmeno pensare!

Come Celeste, inizio a camminare a vanvera per la casa e studio ogni souvenir sulle mensole, ogni quadro o fotografia appesi alla parete. In camera di Marco, vicino al poster degli AC/DC e a un biglietto dei Red Hot, trovo un vecchio scatto, estate.

Ricordo quella sera: giocavamo a Jolie e Pitt e io, per scherzo, avevo votato Celeste con un punteggio alto. Poi le avevamo tirato un gavettone sul seno prosperoso e ci avevamo scherzato per tutta la serata. Nella foto siamo così: io e Marco abbracciati a Celeste, lui a sinistra e io a destra, mentre lei imbarazzata si nasconde il petto con il mio coprispalle. All'epoca i nostri pensieri peggiori riguardavano i debiti al liceo e le piccole liti.

Celeste, al mio fianco, adocchia la stessa foto:

«Resto dell'idea che avremmo dovuto chiamare la polizia» mi dice.

Dopo aver bevuto una tazza fumante di camomilla, ho placato il respiro, e sì, avremmo dovuto chiamare la polizia, però...

«Credo di averlo picchiato anch'io» confesso.

Ricordo di avergli puntato le unghie negli avambracci, forse di avergli anche morso il polso. Celeste mi fulmina:

«Beh, ma è stata legittima difesa» mi dice. Forse avrebbe dovuto iscriversi a giurisprudenza, invece che a medicina. «Comunque, se Marco ha deciso così...»

Sospende la frase. È come se Marco fosse la voce di Dio, io e lei i fedeli Apostoli che devono accettare qualunque scelta. Però non siamo nella Bibbia e il pensiero di saperlo da solo con Zeno mi rovescia le budella.

«Forse dovremmo raggiungerlo a Nomi» propongo.

Posso guidare adesso.

«Non mi sembra una buona idea» esclude Celeste.

Possibile sia talmente dipendente da lui da seguire ogni sua pazzia come un cagnolino ubbidiente?

"Beh, puoi andarci anche da sola!" suggerisce il grillo.

Adocchio il mobiletto all'ingresso in cerca delle chiavi, ma accanto a una sveglia e a un cerbiatto di porcellana osservo il vuoto.

Celeste.

«Dove hai messo le mie chiavi?» le chiedo.

Lei si ributta sul divano e versa dalla teiera due nuove tazze di camomilla.

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