Il Louvre chiude alle sette (II)

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1° settembre 2009


Sono passati quindici giorni dalla cena di Ferragosto, quando Zeno si è presentato da me con quel mazzo di rose e l'orgoglio di vincere una sfida, due settimane senza una telefonata o un messaggio di scuse. Scuse da parte sua, per avermi lasciata da sola nel locale; scuse da parte mia per averlo messo in competizione con Marco.

Qualcuno potrebbe pensare che mi abbia liquidata con la vecchia tattica del silenzio. Per citare Tania e il suo manuale delle storie leggere:

"Scomparire misteriosamente, lasciando che l'altra metà comprenda: se non ti cerco, è perché mi si sono sbriciolate le palle a forza di vederti".

Se l'uomo in questione fosse una persona normale, darei ragione a quel "qualcuno", ma relazionarmi con un sociopatico in attesa dell'ispirazione divina non dovrebbe rimescolare le carte in gioco?

Non so per quale motivo mi rivoglia gettare tra le braccia di Zeno. Nicola, citando Anatolia, parlava di solitudine. Ora che Marco mi ha insultata, che Valentina è presa da Alex, che con Biagio sono ai ferri corti, Zeno mi sembra un'invitante spiaggia hawaiana sulla quale trascorrere qualche ora di relax.

Fatto trenta posso fare trentuno: dopo esserci andata a letto, perché non sforzarmi di creare una storia? Devo solo immaginarci insieme, felici. Zeno non è cattivo, è particolare.

Quando il cielo imbrunisce, guido verso Nomi sulla Panda di mia madre, il cavallo che mi porterà dal ranocchio che una volta baciato diventerà principe. Ma in università trovo solo qualche studente disperato per l'appello di settembre, di Zeno nemmeno l'ombra. E anche quando arrivo alla porta dell'atelier e busso, non sento un brusio di risposta. Avrei dovuto chiamare: me l'ha o non me l'ha sempre detto Zeno che le visite a sorpresa non sono gradite?

E così ho fatto un viaggio a vuoto, sprecato un pieno di benzina e sono sola soletta a Nomi. Ma prima di girare i tacchi, la coda dell'occhio percepisce un dettaglio, una maniglia lievemente abbassata; e poi un altro dettaglio, un sottile spiraglio tra la maestà e la porta stessa.

Zeno si è scordato di chiudere. Non è da lui. E subito un pensiero divertito appare in testa, che forse il viaggio non è andato a vuoto e una triste serata d'estate si può accendere di divertimento. Zeno non ne avrà a male, se mi intrufolo qua dentro, non se non toccherò niente.

Il locale mi accoglie con un caos che farebbe impallidire persino l'Azzeccagarbugli dei Promessi Sposi. Ci sono quadri premuti negli angoli della stanza, disarcionati dai cavalletti, con tele strappate e tavolozze di colori malamente mischiati, schizzi di olio e chine a impregnare le pareti un tempo bianche.

Zeno è di cattivo umore. Distrugge quel che crea quando la Musa dell'ispirazione lo lascia. Poi passa i giorni successivi a riordinare in maniera maniacale il suo Louvre privato.

In mezzo al marasma di colori sparsi, l'occhio cade sull'anta dell'armadio, quello che contiene gli abbozzi di Zeno. Quelli che potrebbero essere i miei disegni, poi.

Zeno è stato categorico: non aprire l'armadio. Me l'ha detto con una smorfia severa, un misto tra un film dell'horror e la versione incattivita della Bestia, quando impedisce a Bella di toccare la rosa.

Non si fa, Nina. Non si fruga. Ma i quadri degli abbozzi mi richiamano come il canto di una sirena. E lo so che è scorretto, ma come Ulisse non ho voluto mettere dei tappi di cera nelle orecchie, e la melodia si è fatta ormai così insistente da non lasciarmi alternativa.

Tiro il pomello di ottone e il grido di sirena mi polverizza i timpani, il cuore, perfino gli occhi da quanto li dilato. I quadri degli abbozzi sono la prova di un tradimento e io sono una stupida, un'ingenua sognatrice, un'Alice nel Paese delle Meraviglie sprofondata in un complotto di stato, una trappola ordita da Cappellaio Matto e Stregatto.

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