Colazione da Tiffany (II)

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L'occasione per andare a Bologna non si presenta, né io la trovo. Passano tre settimane da quella telefonata, giorni in cui io e Stefano non ci sentiamo, nemmeno per un ciao. Quando la mattina sono nel letto, immagino di avere avuto una visione: io e lui non ci siamo davvero parlati, quella telefonata non è mai esistita. Deve essere stato il mio inconscio, desideroso di un amico, a creare una conversazione falsa.

Dopo essermi lavata la faccia, controllo sempre il registro delle chiamate e sì, il nome di Stefano compare. Telefonata che al momento mi sembrava naturale, ora stramba quanto un finale di fantascienza in un film d'amore.

E voi ce lo vedete il principe azzurro che al posto di baciare Biancaneve estrae una spada laser e strilla: "Che la forza sia con te?"

C'è un altro aspetto alieno nella vita di questi tempi: Tania si è tolta di dosso la maschera da befana della persecuzione. Non indaga su quella telefonata durata ore, non si infila nel mio letto in cerca di caldo, non copia le mie versioni, a stento si presenta a lezione. Rincasa tardi, di notte, versa in un bicchiere qualche goccia di chissà cosa, e poi va sotto le coperte, a girarsi e rigirarsi ancora. Quando vado in facoltà, dorme. Quando torno, non c'è più.

«Hai fatto conoscenze?» le chiedo un martedì a mezzogiorno. Pranzo per me, colazione per lei. Occhi struccati, occhiaie da vampiro, si stropiccia le guance e mi fulmina.

«Conosco già tutti a differenza tua, scricciolo.»

Ecco cosa succede a fare una carezza a un aspide velenoso! Si rischia di morire per la puntura del suo morso. Tania ripara in cucina e sbatte il piatto nel lavandino. Lo vedo andare in mille pezzi, fracassato contro la ciotola in porcellana dell'insalata.

«Fanculo!» sbotta. Un piccolo taglietto sul mignolo. Lo succhia. «Il caffè era bruciato e la brioche confezionata è una merda di conservanti plastificati.»

Pantaloni del pigiama a righe e felpa di pile, si getta sulle spalle il poncho di Valentina, infila nei piedi le Birkenstoff – sempre di Valentina – e apre la porta di ingresso. Io resto a guardarla con la mia piana di pasta al pomodoro. E mi vedo riflessa nella sua immagine, ricordo i giorni dopo l'incidente di Biagio, la maglietta sciupata che indossavo, le ore che passavo a testa in giù nella mia stanza, posizione della verticale, sperando che il sangue annegasse i pensieri.

«Tania, va tutto...»

«Vieni a fare colazione con me, scricciolo!» sorride lei. Veloce a scacciare le nubi del malumore. «Ho bisogno di mettere qualcosa di solido nello stomaco.»

Alias di asciugare la quantità di alcolici che si butta nel fegato con la sua nuova compagnia. Alcuni ragazzi di economia. Mi chiedo se siano stati loro a farle conoscere il locale. Colazione da Tiffany, recita l'insegna. Un cliché.

Ci sediamo a un tavolino tondo, il più lontano dall'ingresso, seminascosto dall'appendiabiti e da una specchiera a parete. E beviamo il nostro caffè da tazze di porcellana bordate d'oro, cucchiaini così piccini che sembrano essere stati rubati da una casa delle bambole.

Quel giorno non chiedo più a Tania se vada tutto bene. Mi limito a guardarla affondare il nasino nella tazza di porcellana. E resto in silenzio, riconosco l'importanza degli spazi e il potere salvifico del tempo. Qualsiasi cosa le sia capitata.

La scena si ripete, per una e due settimane. Io abbozzo un "Come stai?", lei mi trascina al bar. E restiamo insieme da Tiffany, con la cameriera che ci saluta con il classico "Ciao, belle!" e ci porta il solito menù, cappuccino e brioche alla marmellata. Da Tiffany diventa un rituale. Ci finiamo tutti i giorni, senza troppe parole e circostanze. Quei pochi accenni di voce riguardano i vestiti e gli smalti e i trucchi e le feste.

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