Capitolo 3

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Damon

Il modo in cui Dorothy mi ha guardato in auto è stato troppo anche per me, ma poi quando mi ha tenuto testa in saletta, lì ho capito che essere il suo allenatore sarà la prova peggiore che dovrò affrontare in questa vita. Quella piccoletta non sa di essere davvero attraente, forte e sicura, soprattutto quando indossa quei guantoni.

Ma è una ragazzina, ha appena compiuto diciotto anni e io ne ho dieci in più, sono un uomo con delle responsabilità, forse anche troppe, che non possono pesare sulle spalle di una piccoletta... Ma perché sto pensando ancora a lei? Devo smetterla, ho altre cose di cui occuparmi.

Salgo in auto e mi rendo conto che il suo profumo è impregnato nella tappezzeria. Miseria, devo darmi un contegno, non posso perdere la testa e tantomeno il controllo, devo rimanere lucido e razionale, come sempre.

Quando arrivo a casa, Miss Holland è intenta a leggere un giornale. Quando mi vede rientrare lo chiude e mi sorride. «Ehi, piccolo Damon, come stai?»

«Tutto bene, qui com'è andata oggi?»

«In realtà meglio degli altri giorni, è stata più lucida e attiva, ora riposa, ha cenato e ha preso le medicine senza fare storie.» Le sorrido e la ringrazio. «Ora vado, se avessi bisogno, non esitare a chiamare.»

«Lo so, tu ci sei sempre.»

Miss Holland è la migliore amica di mia madre ed è diventata la sua infermiera da quando si è ammalata. Preferisco che se ne occupi qualcuno che la conosce da sempre, in più ha anche le competenze per starle accanto; la sua presenza mi rende più tranquillo quando sono fuori casa.

Raggiungo la sua stanza e mi sistemo sulla poltroncina accanto al suo letto.

Sono nato e cresciuto in questa casa in campagna insieme a mia madre. Non è molto grande, ha due camere da letto, un bagno, una cucina e un salottino, ma a noi è sempre bastato, perché, prima lei da sola e poi insieme, l'abbiamo riempita di amore.

Mia madre è il mio unico genitore da sempre, non ho mai conosciuto mio padre, credo che non sapesse nemmeno che mia madre fosse incinta quando l'ha lasciata, ma poco importa, perché lei mi è bastata e anzi, ha fatto anche più di quanto avrebbe dovuto. Non le è mai pesato sacrificare se stessa e i suoi bisogni per me e i miei sogni. Non le è mai pesato fare tre lavori per farmi mangiare, studiare e comprarmi vestiti nuovi. Non le è mai pesato passare le notti sveglia accanto a me quando avevo la febbre. Non le è mai pesato nulla quando si trattava di suo figlio e ora a me non pesa prendermi cura di lei.

Una lacrima solca il mio viso e la lascio fare, perché essere sensibili non significa essere deboli, perché piangere è segno di forza e coraggio, non bisogna vergognarsene. Accarezzo la mano della mia mamma e la ringrazio in un sussurro.

Resto mezz'ora abbondante con lei, la guardo dormire, respirare e chissà, forse starà sognando i nostri anni migliori, poi torno in cucina e preparo una zuppa. Fuori ha ripreso a piovere e la mia mente ritorna a qualche ora prima, quando ho visto Dorothy bagnata e infreddolita correre in strada. Ammetto di essere rimasto qualche istante a guardarla prima di accostare e offrirle un passaggio.

La prima volta che l'ho vista in palestra è stato strano, quando mi hanno detto che dovevo sostituire Tony, non pensavo di trovarmi davanti una ragazza dalla pelle chiara, limpida e lunghi capelli biondi raccolti in una coda alta, non esageratamente esile, ma nemmeno il tipo di ragazza che avrei scommesso facesse pugilato. I suoi occhi vedi mi hanno rapito subito, mi sono sentito come travolto da un turbinio di strane e inspiegabili sensazioni. Ma è giovane e si vede, quindi, quando l'ho beccata a fissarmi in quel modo così profondo e quasi sconsiderato, mi sono sentito tradire dal mio corpo che desiderava rispondere alle sue attenzioni. La razionalità è andata a farsi benedire, ma quando l'ho riacquistata ho stabilito i limiti tra me e lei e la cosa sembra averle dato un po' fastidio. Mi dispiace che l'abbia presa sul personale, ma non ho potuto fare altrimenti, perché il peso delle nostre vite incide su ciò che siamo e su ciò che vorremmo diventare.

8 anni prima

24h prima della diagnosi
H: 8.00

«Buongiorno, mamma.» Mi avvicino e le bacio la fronte. «Come ti senti oggi?»

«Eh?» Mormora in sovrappensiero, forse è preoccupata per la visita di domani, ma sono sicuro che andrà tutto bene, lei è forte.

«Ti senti bene?»
«Oh, sì, sì, scusa, io... Stavo pensando a una cosa.»
«Cosa?» Mi verso del latte nella tazza e mi siedo accanto a lei.
«Io... Non ricordo.» Si gratta la testa nervosamente.

Mi si gela il sangue nelle vene, ma rimango lucido e razionale. «Sarà stata una cosa di poca importanza, tranquilla», le dico, poi le accarezzo il dorso della mano, ricevendo così un sorriso in risposta.

«Sì, hai ragione. Oggi hai lezione?»

«Mh, ma ho solo due corsi la mattina, poi torno a casa e pranziamo insieme. Vuoi che prenda qualcosa nel tuo ristorante preferito?»

«Oh, sì, volentieri. Ehm, come si chiama... Ah, sì, la pasta alla boscaiola.»

«Vada per boscaiola, ne prenderò due.» Le faccio un occhiolino e poi torno a bere il mio latte freddo. «Ora devo proprio andare, chiamami se hai bisogno, va bene?»

«Tranquillo, sto bene, ho solo un po' di mal di testa, credo che riposerò un po'.»

Non sono per nulla tranquillo a lasciarla sola, mi sembra davvero scossa dagli ultimi avvenimenti e dalla visita programmata per domani mattina; così cerco il numero di Miss Holland prima di andare in università e le scrivo un messaggio:

"Buongiorno Dana, sono in pensiero per mamma, riesci a passare da lei se non sei di turno in ospedale?"

"Ehi, piccolo Damon. Tranquillo, ci penso io a lei. Tu va' a studiare."

Sorrido e mi sento fortunato ad avere anche lei nelle nostre vite. Dana è la migliore amica di mia madre, sono cresciute insieme, mi ha visto nascere, letteralmente, e insieme a Marcus, suo marito, ci sono stati vicino nei momenti difficili. Potremmo definirci una grande famiglia. 

Come il cielo sopra di noiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora