Capitolo 7

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Dorothy

Non posso credere che lei sia qui. Credo sia l'ultima persona che pensavo di poter incontrare. Sono abituato a vederla in tenuta sportiva, quindi ora che la guardo con questo bellissimo abito bianco e rosa, mi sembra di vedere una piccola e dolce fata.

«Dam, tutto bene?» Mi richiama il mio amico e smetto di sognare a occhi aperti.

«Sì, scusa, è che... Niente. Continuiamo.» Scuoto la testa nella speranza che il pensiero di lei possa volatilizzarsi, ma mi sbagli di grosso.

«Sicuro di star bene? Tua madre ha qualche problema e devi tornare a casa?»

«No, no, mamma sta bene.»

O quasi. Oggi è stata una giornata no, poca lucidità nonostante le medicine, ma i medici dicono sia normale, anzi, che la situazione non può che peggiorare, finché le giornate no diventeranno più frequenti di quelle sì. Mi si stringe il cuore, ma sto davvero facendo di tutto per farla stare bene, per alleviare quel peso che sono certo porti nel cuore.

«Ok, allora cos'hai? Sembra che tu abbia visto un fantasma.»

A quella frase, d'istinto mi volto a cercarla nella sala e quando la vedo noto con piacere che anche lei mi sta guardando. I nostri occhi si incrociano per un tempo che all'apparenza sembra lungo, ma che in realtà non è che una frazione di secondo, il tempo necessario per imprimere nella mia memoria quello sguardo così luminoso e potente, da spazzare via qualsiasi sentimento negativo.

«Quella?»
«Eh?»
«Ti piace quella?»
«N-No, cioè...»
«Non fa per te, nemmeno per me, è una figlia di famiglia. Quello è suo padre, Jonathan Sanders, capo della multinazionale "Sanders Dream".»
«Non ho idea di chi sia.»
«Ma come? Dove vivi? In città corrono diverse voci su di lui. Non puoi non averne sentito parlare.»

«Non voglio saperle nemmeno, lei è la... La mia allieva. Non sarebbe professionale. E poi a me non interessano i pettegolezzi, lo sai.» Ed è la verità. Negli ultimi anni non ho fatto altro che lavorare e occuparmi di mia madre, se non fosse stato per Josh non sarei nemmeno uscito di casa per una birra.

«Oh, allora è lei... Accidenti, sei in un bel pasticcio. È una ragazzina. Avrà sì e no diciotto anni.»

«Josh, smettila, non ho una cotta per lei.» Davvero? Non ne sono così certo. Non mi è indifferente come voglio far credere. Quando le sono vicino, quando i nostri sguardi si intrecciano, sento come la necessità di sapere che sta bene.

«Invece sì, te lo si legge in faccia.»

Alzo gli occhi al cielo. «Sei proprio un cretino e ora andiamo a lavorare.»

Passiamo il resto della serata a servire la cena e a rispondere alle esigenze dei commensali ricchi e spocchiosi. Per fortuna non mi è stato assegnato il tavolo dov'è seduta la famiglia di Dory, o non credo che sarei riuscito a resistere tutta la sera senza perdermi nel suo sguardo. Sembra davvero una piccola fata. Ed è stupenda, immensamente luminosa. Mi mordo il labbro e tengo a bada le mie sensazioni: non posso avvicinarmi a lei, non come vorrei. Non sarebbe giusto nei suoi confronti.

Arrivati al dolce, tutti gli ospiti si spostano in una sala adiacente per proseguire la serata, mentre noi del catering ci occupiamo di sistemare quella dove si è tenuta la cena. Sparecchiamo, spaziamo, laviamo a terra. Guado l'ora ed è davvero tardi. Josh ha già concluso le sue mansioni e mi aspetta nel parcheggio per fumare una sigaretta, così vado in bagno a cambiarmi e darmi una sistemata. Quando esco, però, mi imbatto in lei.

«Sei ancora qui?», le chiedo. Ma che domanda idiota è?
«Già, anche tu.»
«Stavo sistemando la sala.»
«Io cercavo un po' di tranquillità», confessa mordicchiandosi il labbro nervosamente.
«Ti va di andare in terrazza? Qui ci sono ancora dei ragazzi che finiscono di sistemare, mentre lì...»
«Mi va.» Mi sorride e ci incamminiamo l'uno accanto all'altra. Ci appoggiamo entrambi all'inferriata e guardiamo il panorama davanti a noi. Nonostante il mio sguardo sia rivolto all'orizzonte, sembra quasi di vedere i suoi occhi riflessi nella luce delle stelle. «Scusa ancora per ieri», sussurra mortificata.

«Non devi, anzi... Che ne dici se facciamo finta che non sia mai successo? Così smetterai di scusarti», mi volto giusto il necessario per osservarla.

«Oh, ok. Va bene.» Quel mezzo sorriso accennato è come ossigeno per la mia anima in tempesta.

«Ottimo.» La mia mano sembra muoversi contro il mio volere e si appoggia sul suo viso in una carezza delicata. «Stai molto bene così.»

Le sue guance si colorano di rosso e i miei polpastrelli riescono ad avvertire il calore che irradiano. È stupenda, ancora più del solito. «Decisamente diversa dalla tuta della palestra», sdrammatizza.

«Già», ripeto e la voce mi esce roca. No, dannazione, no! Non posso e non devo provare queste sensazioni per lei. Cerco di combattere con la mia parte razionale.

Dorothy appoggia la sua mano sulla mia e un brivido mi percorre il braccio, la spalla e arriva dritto al cuore che smette di battere per un nano secondo. «Damon...»

«Dory...»

I nostri nomi escono come sussurri interrotti da respiri profondi. Il mio cuore palpita così veloce che sembra voglia schizzare via. Non mi sono mai sentito per una ragazza e un po' mi fa paura. Sposto lo sguardo dai suoi occhi alle sue labbra e Dio solo sa quanto desideri baciarla, leccarla, sentirla ansimare al mio tocco, ma...

«Damon!» La voce del mio migliore amico interrompe quel momento e se da un lato vorrei strozzarlo, dall'altro forse vorrei ringraziarlo. Se mi fossi spinto oltre, se ci fossimo scambiati il bacio che entrambi desideriamo, non sarebbe più stato possibile tornare indietro. Ci allontaniamo di scatto e ci voltiamo entrambi verso di lui. «Oh, Dio, scusate.» Ci guarda mortificato.

«Josh, ehm, arrivo.»
«Ti aspetto giù.»
«Certo.»

Quando finalmente è lontano dalla nostra visuale, io e Dory torniamo a guardarci negli occhi, ma ormai il momento è perso, l'atmosfera si è dissolta. «Devo andare, ci vediamo lunedì.»

«Sì, ciao.»

Le sorrido e poi scappo via per raggiungere il più velocemente possibile la mia auto. Come se potesse rappresentar e il rifugio dai miei stessi sentimenti.

«Perdonami Dam, non credevo che...»
«Non fa niente, non è successo niente», dico cercando di convincere più me stesso che lui.
«Ma voi stavate per...»
«Niente.»
«Ma se te la stavi mangiando con gli occhi!», mi redarguisce.
«Non è vero.»
«E io sono Brad Pitt.»
«Davvero?»
«No.»

Scoppiamo a ridere mentre metto in moto l'auto. Mi immetto in strada cercando di rimanere concentrato, ma quello che stava per succedere su quella terrazza, il modo in cui l'ho guardata e ho iniziato a pensare a lei è assurdo, è sbagliato. Mi sento un idiota, so di non poterle dare nulla di ciò che ha bisogno, ma continuo imperterrito a sbatterci la testa.

Uno. Lei è giovane, dieci anni di differenza sono tanti, prospettive di vita diversi e fasi differenti da affrontare. Va ancora al liceo, dannazione!

Due. Sono un semplice cameriere e lei la figlia del proprietario di una multinazionale. Cosa potrei darle in più di quanto non ha già?

Tre. Non posso amare o essere amato con il rischio di dimenticare.

8 anni prima

20h prima della diagnosi
H: 13.00

«Mamma, sono a casa con il pranzo.»
«Ciao, tesoro.» Mi viene incontro e mi sorride. «Cos'hai portato di buono?»
«La boscaiola per due.»
Lei corruga la fronte confusa. «Boscaiola?»
«Sì, stamattina abbiamo deciso...»
«Io non ho detto boscaiola, io non ho detto boscaiola», si agita.
«Mamma, calmati.» La afferro per le spalle.
«Io ho detto arrabbiata, penne all'arrabbiata.»

Sento un macigno crollarmi addosso e il mio corpo sopravvivere, ma la mia anima e il mio cuore vengono ridotti in brandelli.

«S-Sì, scusa, mi sono sbagliato», mento abbracciandola.
«Ho detto arrabbiata», sussurra tra i singhiozzi.

«Sì, lo hai detto.»

In questo momento mi rendo conto che la diagnosi di domani è in realtà già abbastanza chiara, ci dovranno solo dare un nome e una cura.

Come il cielo sopra di noiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora