La noia chiamata vita

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- Jason Dwight

Sono nato a New York. Ma non nella parte elegante, preziosa e ricca della cittá. Sono nato in periferia. Con due genitori che non si meritano il titolo di esserlo. Ma ho sempre fatto il bravo, sono sempre stato in silenzio. Ma non ho avuto tanti premi piacevoli.
Sono andato via dallo schifo di New York a sedici anni. Ai miei non è fregato nulla. Sono andato a Oslo, sperando di scappare dalla paura e dalla noia. La noia di una vita tutta uguale.
Quando sono arrivato a Oslo, mi è piaciuta subito. Niente aria che sapeva di benzina o fumo. Solo aria fresca e pulita dal verde delle piante. Niente strade sporche e strette, solo larghe e senza spazzatura. Poche aiuto, e tutte elettriche. Un paradiso verde e fresco. Come essere in un film di fantascienza.
Ho affittato un monolocale in buone condizioni, e ho iniziato a lavorare in un bar. A ventitrè anni la mia vita a Oslo cambió. Non sapevo se volevo cominciare un'università. Mi piaceva la musica, suonavo il liuto, ma non sapevo se a Oslo c'era un'accademia. E poi non mi volevo muovere dalla cittá. Era la prima che mi aveva accolto a braccia aperte. Non volevo ritornare in cittá sporche e industriali.
Anche se Oslo mi annoiava, ma meno di New York. Il lavoro al bar era piacevole, e la mia routine era tranquilla, avevo molto tempo per me e il monolocale in cui vivevo mi piaceva molto.
Ma la noia nella mia vita se ne sarebbe andata molto presto, e la mia melodia felice giornaliera avrebbe preso altre note.
Era una mattina d'inizio maggio. Mi ero svegliato alle sei e mezza per andare a lavoro alle sette e mezza. Fuori l'aria era fredda, anche se la primavera era cominciata, e un po' di neve era accumulata ai lati delle strade. Il meteo quell'anno era come impazzito; aveva nevicato per tutto aprile, dolcemente, ma comunque la neve era aumentata giorno dopo giorno. Dopo il sole non era tornato. Era un disco pallido nel cielo coperto da nuvole grigie. Ma a me non dispiaceva quel clima.
Mi stavo allacciando il cappotto ricoperto all'interno di lana quando il mio telefono tintinnó. Guardai: era arrivato un messaggio.
"Ciao Jason, che ne dici se andiamo insieme fino al bar?" Mi aveva scritto il mio collega.
"Ok" avevo risposto.
"Sono giá sotto il tuo condominio. Ti aspetto"
Mi misi gli scarponi caldi e scesi le scale, ritrovandomi davanti alla porta del palazzo. L'aprii, e davanti c'era Daven.
Daven Dahl era un mio collega di lavoro. Aveva i capelli corti e lisci, di un biondo platino chiarissimo, la pelle altrettanto chiara, gli occhi celesti e leggermente bianchi, come un cielo sereno con le nuvole. Aveva le labbra sottili, screpolate, il naso piccolo e sempre rosso per via del freddo. Era molto piú basso di me. Io ero alto centonovanta centimetri, mentre lui centosettantacinque. Aveva sempre la stessa sciarpa viola abbinata ai guanti di lana. E aveva sempre il sorriso dolce, gli occhi vivaci, la lingua pronta a parlare di qualsiasi cosa. Potevo dire che era... Il mio migliore amico.
"Hey! Bello il nuovo giubbotto." disse indicando la veste verde alga.
"Grazie. Sei particolarmente vivace oggi." risposi, con la mia solita voce morente.
"E tu sei particolarmente molto piú triste del solito. I tuoi capelli sanno di shampoo anche oggi." Aggiunse indicando i miei capelli castani e ondulati.
"Come fai a sentire l'odore se sei distante da me?" Chiesi.
"Magic." rispose muovendo le dita come per fare delle scintille. "Dai, andiamo"
Lo seguì mentre camminava quasi saltellando sul marciapiede. Avevo la testa leggermente chinata.
"Hai dormito stanotte? Io benissimo! Ho sognato di vedere mia sorella. Ieri mi ha mandato un messaggio sai? Ha detto che si è innamorata di Firenze. Beata lei che è lá. Tu cosa hai sognato?"
"Non ho dormito granchè." risposi.
"Mi dispiace. Non ti aiuta la melatonina che ti compro?"
"In realtá non fa effetto."
La sua espressione era un ibrido tra lo stupore e l'indignazione. "Cosa?! E io che andavo in farmacia a comprarti ste benedette caramelle per sei mesi, e ora tu mi dici adesso che non fanno effetto?!" Mi guardó ma il suo sguardo si addolcí rapidamente. "Vabbè. Meglio tardi che mai."
"Sono buone peró..."
"Solo tu trovi le medicine buone." mi rispose quasi aspro. Il tono della sua voce mi fece quasi ridere. Mi limitai a una sorriso.
Dopo un paio di minuti arrivammo dall'altro lato del bar. Il piccolo locale era chiuso, con le tende abbassate e i quattro tavolini fuori deserti. Ma quando era aperto, era pieno di luce e l'atmosfera odorava di pane caldo e caffè.
Daven guardó i due lati per la strada, accertandosi di poter attraversare le striscie.
"Ti stavo dicendo. Karen ama cosí tanto Firenze che-"
"DAVEN!"
gli sfiorai il cappuccio con le dita, ma non feci in tempo. E lo trovai a terra.

Panic Island: Escape or Die [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora