Mazzo di magnolie

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Una striscia di sangue aveva macchiato il mio cappotto come una lama di vernice. Il senso di colpa mi attanagliava i nervi come due morse di iena. La tristezza mi stava oscurando l'anima, filtrando via tutto, la noia, la rabbia, la felicitá.
Daven era morto.
Davanti a me.
Un camion era arrivato a tutta velocità. Nessuno l'aveva notato. Non si era fermato, nemmeno quando aveva visto le striscie. Era passato sopra Daven come un bisonte in carica, lasciandosi dietro una scia rossa. Avevo provato a prendergli il cappuccio tirarlo indietro. Ma il veicolo era stato troppo veloce, e io troppo lento.
Alcuni attorno a me avevano strillato, un bambino e una bambina. Gli altri si erano avvicinati al corpo, quattro persone in tutto, mentre il padre e i suoi due bambini terrorizzati stavano alla larga, guardando la scena sconvolti. L'uomo senza barba e dai capelli neri teneva i volti dei figli attaccati al cappotto per non fare vedere loro la tragedia. Una donna dai capelli lunghissimi e bruni si era avvicinata chiamando l'ambulanza, mentre un uomo calvo e barbuto camminava avanti indietro, terrorizzato. Due altre donne, una coppia giovane, si era avvicinata cercando di aiutare. Ma ormai era tardi. Daven aveva la testa sfondata, la schiena girata in una curva innaturale, un braccio si era staccato dal corpo e le gambe erano flosce. Tutto era ricoperto di sangue. I suoi occhi erano rimasti celesti, e guardavano il cielo con stupore, mentre preservano ancora tutta la sua allegria.
Mi tremarono le mani. Avrei voluto abbracciarlo, ma non l'avrebbe potuto sapere. Avrei voluto dirgli che mi dispiace, ma non avrebbe potuto sentirlo.
In tutta l'agitazione, nessuno lo notó, tranne io. Ma un animale volante nero si era avvicinato curioso alla scena. Era un corvo, sicuro. Penne nere, becco grigio, media dimensione, aura intelligente. Si fece largo tra la coppia di donne, camminando come se nessuno potesse fermarlo. Poi mi guardó. Uno sguardo tagliente, menefreghista, egocentrico. Uno sguardo dagli occhi grigi. Camminó ancora, fino a che non arrivó al corpo di Daven. Osservó il ragazzo insanguinato, e poi ancora allacció i suoi occhi ai miei, mentre saliva sul suo petto fermo.
Giró la testa, e studió la situazione. Quando trovó una pozza di sangue, ci mise dentro la testa come un biscotto nel latte. Ora metá nel suo volto era rosso. Lo aveva fatto apposta per vedere la mia reazione. L'avevo capito quando mi aveva nuovamente invitato a osservarlo, sorridendo con il suo becco grigio.
Una rabbia indescrivibile mi salí dal petto. Strinsi i pugni, le vene in vista, forse avrebbero potuto esplodere. Le tempie in fiamme. Gli occhi sgranati e assetati da un unico desiderio: strangolare quell'ospite cosí tanto insensibile e indesiderato.
Appena vide l'ira nei miei occhi, voló via senza un cenno di paura o di terrore. Sempre con quell'espressione da creatura ignobile.
Quando arrivó l'ambulanza era ovvio che non c'era nulla da fare.
Mi ero rintanato nel mio monolocale per due settimane. Piangevo e piangevo. Non sapevo fare altro. Dormivo a stento, bevevo solo tre bicchieri d'acqua al giorno e mangiavo pochissimo. Ero dimagrito di dieci chili.
Andavo solo in palestra per sfogarmi nelle ore notturne, dove nessuno poteva vedere le mie occhiaie.
Lo vedevo nei miei sogni brevi. Non parlava. C'era solo il suo volto radioso e i suoi occhi dipinti dei colori del cielo sereno.
Lo vedevo in TV, nei videogiochi, nei libri. Avevo le allucinazioni. Immaginavo che mi diceva che i miei capelli odoravano di shampoo, quando in realtá non c'era nessuno. Il cappotto verde alga non lo lavai mai. Anche se era tetro, volevo tenere il suo sangue. Avevo poche cose di lui. Volevo tenerle come i miei piú grandi tesori. Era comunque stato il mio primo e unico migliore amico. La prima persona che a Oslo mi aveva notato.
Quando ebbi il coraggio di tornare al bar, c'era Brenda, il mio capo. Era una donna robusta, di media altezza, con i capelli castano-rossi sempre in una coda bassa e gli occhi bruni. Sempre gentile e di buon cuore. Appena mi vide mi salutó, notando subito il mio umore.
"Puoi stare ancora un po' piú a casa Jason. Hai le occhiaie profonde e stai malissimo."
"Ho bisogno di lavorare"
"Devo ancora pagarti le promozioni del mese scorso. Stai tranquillo, entro il diciotto del mese avrai il tuo stipendio. Hai giá lavorato abbastanza." interruppe il discorso solo per dire a Levi di servire un tavolo e preparare un cappuccino, poi riprese. "Non ti ho visto al funerale."
"C'ero."
"Allora è la mia scarsa vista che inganna. Scusami."
"Niente." borbottai.
I ricordi del funerale oscurarono la mia mente. Era stato fatto in un boschetto fuori da Oslo, tre giorni dopo la sua morte. Non in chiesa, perchè Daven era ateo. Avevo incontrato sua madre per la seconda volta. Era una donna bassa e magra, con i capelli biondo platino come il figlio e avvolti in uno chignon. "Daven teneva tanto a te, e so che anche tu tenevi tanto a lui. Mi dispiace. Non sentirti in colpa." aveva detto, dandomi una pacca sulla spalla. Avevo annuito piano per aver riferito il messaggio. Sua sorella invece l'avevo vista molte volte. Era alta, piú della madre. La sua spalla sfiorava la mia. Aveva la pelle scura, perchè suo padre era del Sud del Sudan. I suoi occhi erano color mandorla scura, i capelli neri tinti alle punte di rosa e avvolti in trecce piccole ed eleganti. Ma di Karen tu notavi subito una sola cosa; lei aveva la vitiligine. Proprio come me. Per questo con lei mi sentivo come se fosse anche per me una sorella minore. Aveva un carattere molto piú simile al mio, ma sapeva essere allegra e rumorosa quando voleva.
Lei e Daven mi avevano accettato anche se avevo una malattia alquanto rara.
"Mi dispiace Jason. Non doveva finire cosí." mi aveva detto in lacrime.
"Lo so... Lo so..." avevo mormorato, e anche io ero scoppiato a piangere.
Daven era stato sepolto in una tomba biologica, in modo che il suo corpo si sarebbe integrato alla foresta. Me l'aveva sempre detto che voleva essere sepolto in quel modo.
"Ora è parte di ció che ha sempre voluto essere." aveva sussurrato il padre acquisito di Daven, Joseph, un uomo alto, dalle spalle larghe e dalla pelle scura. Mi aveva guardato con i suoi occhi scuri e lucidi dall'alto dei suoi due metri.
"È con il suo vero padre." aveva continuato. Il vero padre biologico di Daven si chiamava Hans. Da ció che Astrid, sua madre, mi aveva raccontato avevo capito che era morto di un cancro ai reni quando Daven aveva circa dodici anni. Quando era morto, anche lui si era fatto sotterrare nello stesso bosco.
Quando il funerale era finito, ero andato da lui a dargli un mazzo di magnolie. Lui le amava. Pensavo che gli sarebbero piaciute. Quando stavo per addentrarmi nel centro di Oslo, Karen era corsa da me con una scatoletta rossa in mano.
"Scusa Jason, ma mi sono ricordata adesso della scatoletta. È un regalo da parte di Daven. Ha detto che se sarebbe morto giovane lo avrei dovuto dare a te." Spiegó. Ringraziai e andai.
Una spallata involontaria di Brenda mi riportó al locale, e a ció che volevo dirle. Quando tornó dal servire una tartina al mirtillo, la fermai per parlarle.
"Dimmi Jason"
"Ecco.. Brenda io ho bisogno di una pausa.. ma non posso stare a Oslo." avevo cominciato "Ho bisogno di andare in un altro luogo. La Norvegia mi ricorda troppo lui. Io... Credo che andró in vacanza da qualche parte in qualche paese meridionale."

Panic Island: Escape or Die [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora