80 HARDIN

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NOVE giorni.
Nove giorni che non parlo con Tessa. Non pensavo che sarei riuscito a sopravvivere un solo giorno senza parlare con lei, figuriamoci nove. Mi sembrano mille, e ogni giorno fa più male del precedente.
Quando se n'è andata dall'appartamento, quella sera, ho aspettato il suo ritorno. Sono rimasto seduto sul pavimento ad aspettarla. Non è mai tornata.
Ho scolato la birra che avevo in frigo e ho spaccato la bottiglia. La mattina dopo ho fatto i bagagli e sono salito su un aereo. Se voleva tornare da me, a quell'ora l'avrebbe già fatto. Avevo bisogno di spazio. Non ho avvertito mia madre che stavo arrivando; tanto non è che avesse impegni.
Se Tessa mi chiama prima che io salga sull'aereo, tornerò indietro.
Altrimenti... peccato: così mi ripetevo. Lei torna sempre da me, qualsiasi cosa le faccia, quindi perché stavolta è diverso? Le ho solo raccontato una piccola bugia; la sua reazione è stata eccessiva.
Anzi, dovrei essere io a essere arrabbiato. Ha portato Zed a casa mia, porca puttana! E poi arriva Landon e mi sbatte contro il muro?
Ancora non ci credo.
È un gran casino, e non per colpa mia. O forse sì, ma sarà lei a tornare strisciando da me. La amo, ma non sarò io a fare la prima mossa.
Il primo giorno l'ho passato quasi tutto in aereo a dormire per smaltire la sbornia. Volevo strozzare il tassista che mi ha portato a casa di mia madre: una tariffa assurda per soli quindici chilometri.
Mia madre è rimasta sorpresa, ma era felice di vedermi. Ha pianto per qualche minuto, ma per fortuna ha smesso quando è arrivato Mike. A quanto pare si sta trasferendo gradualmente da lui e pensa
di vendere la nostra casa. Per me fa lo stesso: non me ne frega niente di quel posto. È pieno di brutti ricordi legati a quello stronzo alcolizzato di mio padre.
È bello poter pensare queste cose senza l'influenza di Tessa. Mi sentirei un po' in colpa a trattare male mia madre e il suo compagno se lei fosse qui con me.
Meno male che non c'è.
Il secondo giorno è stato molto stancante. Per tutto il pomeriggio ho ascoltato mia madre parlare dei progetti per l'estate, e non le ho risposto quando mi ha chiesto perché sono tornato a casa. Se volevo parlarne lo avrei fatto, continuavo a ripeterle. Sono venuto fin qui per stare un po' in pace, invece trovo solo altre rotture. Alle otto sono andato al pub all'angolo. Una bella ragazza mora con gli occhi
dello stesso colore di quelli di Tessa mi ha sorriso e mi ha offerto da bere. Ho rifiutato in modo non troppo scortese, ma solo per via del colore degli occhi.
Ho visto la delusione nello sguardo di mia madre quando sono rientrato in casa barcollando alle due di notte, ma mi sono sforzato di ignorarla. Ho borbottato qualche parola di scuse e sono andato in
camera mia.
Il terzo giorno è cominciato tutto. Di tanto in tanto mi tornava in mente Tessa. Mentre guardavo mia madre che lavava i piatti, pensavo a Tessa e alla sua mania di caricare la lavastoviglie in continuazione, perché non ci fosse mai un solo piatto sporco nel
lavello.
«Oggi andiamo alla fiera, vieni anche tu?» mi ha chiesto mia madre.
«No.»
«Per favore, Hardin. Sei venuto a trovarmi e non mi rivolgi neppure la parola.»
«No, mamma.»
«So perché sei qui.»
Ho sbattuto la tazza sul tavolo e sono uscito dalla cucina.
Ero certo che avrebbe indovinato subito la verità: che sono in fuga, anzi che mi nascondo dalla realtà. Non so che genere di realtà possa esistere senza Tessa, ma non sono pronto a farci i conti, quindi perché mia madre mi tartassa? Se Tessa non vuole stare con me, che vada al diavolo. Non ho bisogno di lei, sto meglio da solo, come avevo sempre pensato.
Pochi istanti dopo è squillato il telefono, ma quando ho visto che era lei ho rifiutato la chiamata. Perché mi chiama? Per dirmi che mi odia, o che vuole togliere il suo nome dal contratto d'affitto.
Ho continuato a chiedermi: Maledizione, Hardin, perché l'hai fatto?
Ma non avevo una risposta valida.
Il quarto giorno è iniziato nel modo peggiore possibile.
«Hardin, va' di sopra!» mi scongiura. No, non un'altra volta. Uno degli uomini le assesta uno schiaffo e lei guarda le scale: i nostri occhi si incontrano e io grido. Tessa.
«Hardin! Svegliati, Hardin! Per favore, svegliati!» strillava mia madre.
«Dov'è? Dov'è Tess?» ho ansimato, in un bagno di sudore.
«Non è qui, Hardin.»
«Ma loro...» Mi ci è voluto un momento per raccogliere i pensieri e capire che era solo un incubo. Lo stesso incubo che faccio da sempre, ma ancora peggio del solito. Al posto del viso di mia madre
c'era quello di Tessa.
«Shhh... Va tutto bene, era solo un sogno.» La mamma piangeva e cercava di abbracciarmi, ma non gliel'ho permesso.
«Sto bene», l'ho rassicurata, poi le ho detto di lasciarmi solo.
Per il resto della notte sono rimasto sveglio a tentare di scacciare quell'immagine dalla testa, ma non ci sono riuscito.
Il quarto giorno è proseguito com'era cominciato. Mia madre mi ha ignorato, ed era quello che volevo, ma alla fine mi sono sentito un po'... solo. Ho sentito la mancanza di Tessa. Volevo chiamarla, ho sfiorato mille volte il pulsante verde del telefono, ma mi è mancato il coraggio. Non posso darle ciò che vuole, quindi è meglio così. Ho passato il pomeriggio a indagare su quanto mi costerebbe trasportare qui tutta la mia roba. Tanto finirò per tornare a vivere in
Inghilterra, perciò posso anche iniziare a organizzarmi.
Non funzioneremmo mai, io e Tessa. Ho sempre saputo che non sarebbe durata, era impossibile restare insieme. Non la merito, non sono alla sua altezza. Lo so io e lo sanno tutti. Vedo come gli altri si girano a guardarci ovunque andiamo, e so che si chiedono perché una ragazza così bella stia con uno come me.
Mi ero addormentato dopo mezza bottiglia di whisky quando mi è sembrato di sentir vibrare il telefono sul comodino, ma ero troppo ubriaco per rispondere. L'incubo è tornato; stavolta la camicia da notte di Tessa era imbrattata di sangue e lei mi strillava di andare via, di lasciarla su quel divano.
Il quinto giorno mi sono svegliato con un'altra chiamata senza risposta. Il quinto giorno ho fissato il suo nome sullo schermo e mi sono messo a sfogliare le sue foto. Perché gliene ho scattate così tante?
Mi è tornato in mente il suono della sua voce. Non mi sono mai piaciuti gli accenti americani, li trovo irritanti, ma la voce di Tessa è perfetta. Potrei ascoltarla parlare tutto il santo giorno. Sentirò mai più la sua voce?
Questa è la mia preferita, ho pensato a proposito di almeno dieci foto. Ce n'era una in cui stava sdraiata a pancia in giù sul letto, i capelli sciolti e sistemati dietro le orecchie. Il mento sulle mani e le labbra socchiuse. Stava leggendo un ebook. Le avevo scattato quella foto appena si era accorta che la guardavo, nell'istante in cui aveva sorriso. Sembrava così felice in quella foto. Mi guarda... mi guardava sempre così?
Quel giorno, il quinto giorno, ho iniziato a sentire un peso nel petto. Un ricordo incessante di ciò che avevo fatto e, molto probabilmente, di ciò che avevo perduto. Avrei dovuto chiamarla quel giorno, mentre guardavo le foto. Lei stava scorrendo le mie? Ne
ha solo una, e mi pento di non averle permesso di farmene altre. Il quinto giorno ho scagliato il telefono contro il muro sperando di romperlo, ma ho solo infranto lo schermo. Il quinto giorno ho desiderato con tutto me stesso che lei mi chiamasse. Se lo avesse fatto, tutto si sarebbe risolto. Ci saremmo chiesti scusa a vicenda e io sarei rientrato a casa. Non mi sarei sentito in colpa a tornare nella
sua vita, se mi avesse chiamato lei. Mi domandavo se stava male quanto me. Anche per lei ogni giorno era più difficile del precedente?
Ogni secondo senza di me faticava di più a respirare?
Quel giorno ho iniziato a perdere l'appetito. Mi mancavano i piatti semplici che lei preparava per me. Mi mancava guardarla mangiare.
Il quinto giorno è il giorno in cui sono crollato. Sono scoppiato a piangere come una ragazzina, senza riuscire a smettere.
Il sesto giorno mi sono svegliato con gli occhi gonfi e iniettati di sangue. Non mi capacitavo di avere pianto in quel modo la sera prima. Perché continuavo a trattarla male? È la prima persona che
sia riuscita ad andare a fondo di me, a scoprire la verità su di me, e io l'ho trattata di merda. Ho scaricato tutte le colpe su di lei, anche le mie. Ed erano tutte mie, anche quando non me ne rendevo conto.
Sono stato scortese con lei quando cercava di parlarmi. E le ho mentito, ripetutamente. E invece lei mi ha sempre perdonato. Potevo contare sul suo perdono, e forse è per questo che la trattavo così
male, perché sapevo di poterlo fare. Il sesto giorno ho schiacciato il telefono con i piedi. Per metà della giornata non ho toccato cibo. Mia madre mi ha offerto dei cereali, ho provato a mangiarli, ma ho
rischiato di vomitare. Non facevo una doccia dal terzo giorno: facevo schifo.
Una volta Tessa mi ha accusato di averla rovinata. Ora, riflettendoci, capisco che si sbagliava. È stata lei a rovinare me. Mi è entrata dentro e mi ha distrutto. Avevo impiegato anni – tutta la vita, in pratica – a tirare su quei muri, ma lei è arrivata e li ha buttati giù, lasciando un cumulo di macerie.
«Mi hai sentito, Hardin? Ho preparato una piccola lista, nel caso non l'avessi fatto tu», ha detto mia madre, porgendomi un foglio.
«Sì», ho mormorato.
«Sei sicuro di volerci andare?»
«Sì, non c'è problema.» Mi sono alzato e ho infilato la lista nella tasca dei jeans sporchi.
«Ti ho sentito stanotte, Hardin. Se vuoi...»
«No, mamma, per favore. No.» Mi faceva male la gola, non riuscivo a parlare.
«Okay.» Mentre uscivo di casa mi ha guardato con gli occhi colmi di tristezza.
Al supermercato, sono riuscito a trovare le poche cose scritte sulla lista: pane, marmellata, caffè, un po' di frutta. Vedere tutto quel cibo mi ha fatto venire la nausea. Ho comprato una mela e mi sono
imposto di mangiarla. Sapeva di cartone.
Quando sono uscito dal negozio iniziava a nevicare. Anche la neve mi fa pensare a lei. Tutto mi fa pensare a lei. Mi faceva male la testa.
«Hardin? Hardin Scott?» mi sono sentito chiamare mentre attraversavo la strada. No, non poteva essere.
«Sei proprio tu?» ha chiesto ancora.
Natalie.
Era impossibile, eppure eccola lì, con le borse della spesa, che veniva verso di me.
«Ehm... ciao», ho balbettato, con le mani che cominciavano già a sudarmi.
«Pensavo che ti fossi trasferito.»
I suoi occhi brillavano, non erano più vacui come li ricordavo, quando mi aveva scongiurato in lacrime di lasciarla dormire a casa mia perché non aveva un posto dove andare.
«Sì... sono solo in visita.»
«Be', meglio così.» Ha sorriso posando i sacchetti sul
marciapiede.
Come faceva a sorridermi, dopo tutto quello che le avevo fatto?
«Come stai?» mi sono imposto di chiedere alla ragazza cui avevo rovinato la vita.
«Bene, molto bene», ha cinguettato lei, accarezzandosi la pancia.
Pancia? Oddio. No, aspetta... I conti non tornavano. Porca puttana, per un attimo mi ero spaventato.
«Sei incinta?» le ho chiesto, sperando di sì, altrimenti avrei fatto una brutta gaffe.
«Sì, di sei mesi. E fidanzata!» ha esclamato mostrandomi l'anello.
«Ah.»
«Sì, è buffo come vanno le cose, no?» Si è sistemata i capelli castani dietro le orecchie. La sua voce era così dolce che mi ha fatto sentire mille volte peggio. Non riuscivo a non pensare alla sua faccia quando aveva sorpreso gli altri a guardarla sullo schermo. Era fuggita in lacrime. Non l'avevo seguita, ovviamente; avevo riso di lei, della sua umiliazione e del suo dolore.
«Mi dispiace», le ho detto. È stato strano dirlo, ma era necessario.
Mi aspettavo che mi insultasse, che mi dicesse che sono una persona orribile, persino che mi prendesse a pugni.
Non mi aspettavo certo che mi abbracciasse e mi dicesse che mi perdonava.
«Come puoi perdonarmi? Ti ho rovinato la vita.» Mi bruciavano gli occhi.
«No, non mi hai rovinato la vita. Be', all'inizio sì, ma poi si è risolto tutto, in un certo senso.»
«Eh?»
«Dopo che tu... be', lo sai... non sapevo dove andare, quindi ho trovato una chiesa, una chiesa nuova perché da quella vecchia mi avevano cacciata, ed è stato lì che ho conosciuto Elijah.» Nel pronunciare quel nome si illumina in volto.
«Ed eccoci qui, quasi tre anni dopo, fidanzati e in dolce attesa. Tutto accade per un motivo, no? Sembra una frase fatta, eh?» ha commentato ridacchiando.
Quel suo risolino mi ha ricordato che era sempre stata una ragazza molto dolce. Ma la dolcezza faceva di lei una vittima più vulnerabile.
«Forse, ma sono contento che tu abbia trovato qualcuno. Ho pensato a te negli ultimi tempi... sai... a quello che ti ho fatto, e mi sono sentito molto in colpa. Vedo che ora sei felice, ma questo non giustifica il mio comportamento. Solo quando ho conosciuto Tessa ho capito...» Ho lasciato la frase in sospeso.
Natalie ha accennato un sorriso. «Tessa?»
Sono quasi svenuto dal dolore. «È... lei è... ehm...»
«Tua moglie?» ha ipotizzato cercando con gli occhi un anello al mio dito.
«No, era... era la mia ragazza.»
«Ah, quindi ora hai deciso che vuoi una relazione?» ha ribattuto in tono scherzoso; ero sicuro che percepisse il mio dolore.
«No... be', solo lei.»
«Ho capito. E adesso non è più la tua ragazza?»
«No.»
«Be', mi dispiace. Spero che le cose si risolvano, come si sono risolte per me.»
«Grazie. Congratulazioni per il fidanzamento e... per il bambino», ho detto, imbarazzato.
«Grazie! Ci sposeremo quest'estate.»
«Così presto?»
«Be', siamo fidanzati da due anni.»
«Wow.»
«È successo in fretta, poco dopo che ci siamo conosciuti.» Mi sono sentito uno stronzo, ma l'ho chiesto ugualmente: «Non siete troppo giovani?»
«Ho quasi ventun anni», ha replicato lei con un sorriso. «Non ha senso aspettare. Ho avuto la fortuna di aver trovato presto la persona con cui voglio passare il resto della vita: perché sprecare altro tempo? Sono onorata che lui mi voglia sposare: non c'è dimostrazione d'amore più grande.» Mi è parso di sentire la voce di Tessa che diceva le stesse parole.
«Forse hai ragione», ho ammesso.
«Ah, eccolo!» ha esclamato lei felice. «Devo andare, muoio di freddo e sono incinta, non è una buona combinazione.» Ha raccolto i sacchetti ed è andata incontro a un uomo in maglione senza maniche e pantaloni cachi. Il sorriso di lui alla vista della fidanzata incinta era così raggiante da illuminare quella tetra giornata inglese.
Il settimo giorno è stato lungo. Tutti i giorni sono stati lunghi.
Continuavo a pensare a Natalie e al fatto che mi avesse perdonato; non poteva succedermi in un momento migliore. Certo, avevo una pessima cera, ma lei era felice e innamorata. E incinta, persino. Non le avevo rovinato la vita, dopotutto.
Ho passato tutto il tempo a letto. Non mi sono neppure alzato a tirar su le tapparelle. Mia madre e Mike sono stati fuori tutto il giorno, e sono rimasto a casa da solo a crogiolarmi nella sofferenza. Ogni
giorno era peggio. Passavo il tempo a chiedermi cosa stesse facendo, con chi fosse. Piangeva? Si sentiva sola? Era tornata nel nostro appartamento a cercarmi? Perché non mi aveva più chiamato?
Non è il dolore di cui ho letto nei romanzi. Questo dolore non è solo nella testa, ma non è un dolore fisico. È una sofferenza dell'anima, che mi squarcia da dentro, e non penso di poter sopravvivere. Nessuno potrebbe.
Dev'essere così che si sente Tessa quando le faccio del male.
Non immagino come il suo corpo così fragile possa sopportare un dolore del genere: evidentemente è più forte di quanto sembra. Deve esserlo, per sopportarmi. Sua madre una volta mi ha detto che se
davvero tenevo a lei l'avrei dovuta lasciare in pace; perché altrimenti l'avrei fatta soltanto soffrire.
Aveva ragione. Dovevo lasciarla in pace quel giorno. Dovevo lasciarla in pace dal primo giorno che l'ho vista entrare in quella stanza al dormitorio. Mi ero detto che preferivo morire piuttosto che
farla soffrire di nuovo... perché ecco cos'è: questa è la morte, è peggio della morte, fa più male. Ne sono sicuro.
Ho trascorso l'ottavo giorno a bere, da mattina a sera. Non riuscivo a fermarmi, né a togliermi dalla testa il suo viso.
Devi riprenderti, Hardin. Devi. Devo. Devo proprio.
«Hardin...» La voce di Tessa mi fa correre un brivido lungo la schiena.
«Piccolo...»
Quando la guardo, è seduta sul divano di mia madre con un sorriso in faccia e un libro sulle ginocchia.
«Vieni qui, per favore», piagnucola, mentre la porta si apre ed entra un gruppo di uomini. No.
«Eccola lì», dice quello basso che popola i miei incubi ogni notte.
«Hardin?» Tessa scoppia a piangere.
«State lontani da lei», li avverto, ma loro si avvicinano, non mi sentono.
La buttano a terra e le strappano la camicia da notte. Mani sporche e rugose le corrono su per le cosce e lei, tra le lacrime, chiama il mio nome.
«Per favore... Hardin, aiutami.» Mi fissa, ma io sono raggelato.
Non riesco a muovermi, ad aiutarla. Sono costretto a guardare mentre la picchiano e la violentano, e poi la lasciano a terra piena di sangue.
Mia madre non mi ha svegliato, nessuno mi ha svegliato. Sono dovuto arrivare fino in fondo al sogno, e al risveglio la mia realtà era peggiore di qualsiasi incubo.

Il nono giorno è oggi.
«Hai sentito che Christian Vance si trasferisce a Seattle?» mi chiede mia madre mentre mi sforzo di mangiare i cereali.
«Sì.»
«Bello, no? Una nuova sede a Seattle.»
«Sì, bello.»
«Fanno una cena, domenica. Pensava che ci saresti andato.»
«Come fai a saperlo?»
«Me l'ha detto lui, ci sentiamo ogni tanto.» Distoglie lo sguardo e si versa altro caffè.
«Perché?»
«Perché siamo liberi di farlo. Coraggio, mangia.» Mi riprende come fossi un bambino, ma non ho le energie per ribattere.
«Non voglio andarci», le dico.
«Forse non lo rivedrai per un bel po'.»
«E allora? Non lo vedo mai.»
Sembra che abbia qualcos'altro da aggiungere, ma resta in silenzio.
«Hai un'aspirina?» le chiedo, e lei va a prenderla.
Non voglio andare a una stupida cena per festeggiare la partenza di Christian e Kimberly per Seattle. Sono stanco di sentir parlare sempre tutti di Seattle, e so che Tessa sarà alla cena. Devo stare lontano da lei, per il suo bene. Se resto in Inghilterra per qualche
altro giorno, magari qualche settimana, riusciremo a dimenticarci l'un l'altra. Lei troverà una persona, come il fidanzato di Natalie, un uomo molto più adatto a lei rispetto a me.
«Penso ancora che dovresti andarci», ripete mia madre mentre inghiotto l'aspirina, sapendo che non mi aiuterà.
«Non posso, mamma... non potrei neanche se volessi. Dovrei partire domattina prestissimo e non sono ancora pronto.»
«Vuoi dire che non sei pronto ad affrontare ciò che hai lasciato laggiù.»
Non resisto più. Affondo il viso tra le mani e mi lascio invadere dal dolore. Mi lascio affogare. Accolgo il dolore a braccia aperte e spero che mi uccida.
«Hardin...» Mi ritrovo a tremare fra le braccia di mia madre.

After un cuore a mille pezziDove le storie prendono vita. Scoprilo ora