Capitolo 5: Solito lavoro e drammi.

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Giorno 3: John
Non ne potevo proprio più. Tutte le volte che le cose sembravano andare per il verso giusto qualcosa o qualcuno turbava l'equilibrio. E io ero stanco. Lei se ne era appena andata, senza lasciarmi il tempo di spiegare o di chiarire. Ma la cosa che mi dava più fastidio era che lei continua ad avere dei dubbi su di me, nonostante io abbia fatto di tutto per fargli capire che volevo aiutarla...aiutarla nei miei limiti. Vorrei che avesse un bel ricordo della persona che tra quattro mesi la abbandonerà. Ma sembrava impossibile rimanere in pace per più di qualche ora. E questo non faceva bene a nessuno, soprattutto non faceva bene a loro. Mi passai una mano sul viso e lo sfregai forte, dovevo riprendermi da tutto questo casino. Appena Ariadne si era fiondata in bagno avevo quasi rischiato di picchiare Rose ma, fortunatamente, James mi aveva tenuto e fatto rinsavire. Al che li avevo cacciati da casa. Ero scosso da quello che era successo: l'offesa di Rose ad Ariadne e il mio sfogo. Ne avevo abbastanza. E adesso lei era scappata. Sbuffai e controllai il telefono che era appoggiato sulla penisola della cucina: erano le nove. Abbandonai il mio cellulare sulla penisola e mi diressi verso la mia camera. La cosa brutta è che non avevo neanche il suo numero di cellulare. Scossi la testa e aprii l'armadio a parete della mia camera: era grande e avevo un letto matrimoniale al centro della stanza attaccato alla parete, una poltrona color mogano davanti alla parete in vetro e un armadio sempre color mogano di fronte al letto. Adoravo la mia camera. Alle pareti, poi, avevo attaccato delle foto mie e con i miei amici, della mia famiglia, mie con mia sorella e qualcuna con Rose. Ora come ora le vorrei buttare via tutte. Lei era il mio passato e ora avevo un futuro, magari con Ariadne e con il piccolo. Ma cosa stavo dicendo?! Dovevo tornare in me. Quello che stavo dicendo non era possibile, io non potevo avere certe responsabilità a ventidue anni. Mi tirai uno schiaffo in faccia per tornare in me. Io non potevo, so che avrei abbandonato una ragazza di diciannove anni con un bambino ma io.....io ero terrorizzato ma, soprattutto, non ero pronto. Ma per ora non ci volevo pensare. Dal mio armadio presi una maglia bianca a maniche corte molto semplice e un paio di jeans blu slavati, presi l'intimo e le calze. Le scarpe le avrei prese dopo. Mi diressi in bagno e preparai la doccia, era quello che mi ci voleva. Una volta che l'acqua era arrivata alla temperatura giusta mi svestii completamente, per poi entrare nella doccia. Sopirai e lasciai che l'acqua mi scorresse lungo tutto il corpo, come una sorta di terapia rilassante. Adoravo fare la doccia. Presi lentamente lo shampoo e me lo passai sui capelli e poi feci lo stesso con il bagnoschiuma sul corpo. Mi risciacquai, poi, velocemente e spensi l'acqua. Controllai la doccia e mi accorsi di non aver messo l'asciugamano sull' appendiabiti all'interno della doccia. Imprecai e sbattei la mano contro la doccia, per il nervosismo. La cosidetta 'goccia che fa traboccare il vaso'. Sbuffai e dovetti uscire dalla doccia calda completamente nudo, attributi compresi. Rabbrividii e mi fiondai a prendere l'asciugamano. Me lo legai in vita e mi frizionai i capelli velocemente. Mi posizionai davanti allo specchio e mi guardai. Ero un bel ragazzo, lo ero sempre stato. Tutte le ragazze che volevo le ottenevo, sempre. Ma adesso era diverso, adesso c'era Ariadne e il bambino. Non mi interessava più nulla e questo mi preoccupava. Osservai la cicatrice che si allungava dalla spalla fino all'ombelico e la percorsi con il dito. Troppi ricordi. Mi passai la mano tra i capelli e sorrisi. Mi sorrisi. Mi asciugai il corpo e mi vesti, non avevo fame e quindi mi lavai i denti. Tornai in camera e mi infilai le mie All Star nere e andai in cucina. Mi diressi verso la penisola e presi il mio cellulare, che segnava le nove e mezza. Ero pronto. Presi cellulare e portafoglio, mi misi la giacca di pelle nera e uscii di casa, chiudendo la porta a chiave e infilandole, poi, in tasca. Scesi le scale del condominio e uscii dall'edificio, al caldo estivo di giugno. Sbuffai e, mentre mi dirigevo verso la macchina, mi tolsi il giubbotto. Avevo una Land Rover nera, l'unica cosa che avevo comprato con i soldi di mio padre. Aprii l'auto e mi ci infilai, pronto a partire. Il lavoro non era distante ma mi scocciava fare il tragitto a piedi. Ero proprio uomo. Parcheggiai poco distante, nella via di fianco, e feci il pezzo di strada che mi divideva dal bar a piedi. Lavoravo al bar District da circa quattro anni, più o meno dopo aver lasciato la scuola e aver trovato casa. Avevo fatto tutto da solo, rifiutando quasi del tutto i soldi dei miei. Non volevo dipendere da nessuno, volevo dipendere solo da me stesso. Mi sistemai i capelli ed entrai nel bar in perfetto orario. Come non era mio solito: mi piaceva farmi attendere. Al bancone c'era Kevin. Mi sorrise e fischiò, servendo una donna di mezza età. "Va chi si vede per la prima volta in orario!" Fischiò e mi fece un applauso. La donna di mezza età e un ragazzo sui venticinque anni, che arano gli unici clienti, non prestarono attenzione a noi. Io scossi la testa e gli sorrisi. Passai dietro il bancone e ci salutammo con il tipico saluto da maschi: spalla contro spalla. Aprii la porta che dava sul retro e appoggiai la mia giacca sull' appendiabito, vicino a quella di Kevin, misi nel mio armadietto chiavi e portafoglio e mi misi il grembiule marrone con scritto 'District' sul davanti. Ma infilai il cellulare nella tasca posteriore dei jeans: non si sapeva mai, non ero più solo. Rientrai al locale e mi posizionai davanti il lavabo, per lavare a mano le poche tazzine, visto che non c'era nient'altro da fare. "Allora John...come va?" Sbuffai a quella domanda e lo trucidai con gli occhi e lui lo notò. "Ahi, problemi con le donne?" "Già" Lui scoppiò a ridere e la donna che stava pagando lo guardò male e se andò. "Abbassa la voce!" "Scusa amico è che non c'è l'ho fatta, cavolo!" Mentre asciugavo un piatto mi avvicinai a lui e gli diedi una spallata. "Spara." "Posso fidarmi?" Lui annuì e fece il gesto di cucirsi la bocca. Mi sembrava di essere un agente dell' FBI. Sorrisi mentalmente del mio pensiero. "Certo fratello." Mi avvicinai al suo orecchio. "Sono gay." Lui sussultò e si scostò velocemente da me mentre io scoppiai a ridere come un matto. Lui alzò un sopracciglio e mi lasciò uno scappellotto in testa. Io non riuscivo a trattenermi, continuavo a ridere come un matto. Vidi il suo sguardo severo e con calma smisi di ridere, riprendendomi. "Rido per non piangere, Kevin. Questo è quanto." Kevin venne da me e mi mise una mano sulla spalla, da confronto. Lui si era sempre rivelato un buon amico, sopratutto da quando il mio rapporto con James si era un pò inclinato, a causa di Rose. "Vuoi parlarne?" Sbuffai e servii una ragazza appena entrata: caffè macchiato e brioche al cioccolato. "Ti ricordi di Ariadne? Te ne avevo parlato?" Lui annuì e servì un padre con la figlia adolescente, che tra quattro anni sarebbe potuta essere incinta, come Ariadne. Kevin annuì. "Tre giorni fa si è presentata davanti a casa mia." Lui si bloccò e mi guardò stupito. L'uomo davanti a lui tossì e Kevin riprese a servirlo. "Non dirmelo amico." "Incinta" L'uomo e la figlia se ne andarono e lui venne da me, incitandomi a continuare. "Per adesso è un casino unico: lei non si fida di me e non va quasi per nulla d'accordo con il gruppo. E gli ho permesso di stare da me fino a quando nascerà il bambino." "E dopo cosa fará? Ci hai pensato? Ha un lavoro? Una casa?" Mi presi la testa fra le mani e la scossi. Non lo sapevo. "Io non lo voglio. E poi un lavoro c'è l'ha." Kevin rimase zitto. So che quello che dicevo era da bastardo egoista ma non volevo questo impegno. Anche se era anche colpa mia. Kevin appoggiò lo strofinaccio, che stava utilizzando per asciugare dei piatti, a uno dei due lavabi e venne da me. "John...so che questa per te non è una faccenda facile, te lo dico per esperienza, ma cerca di capire questa ragazza, di metterti per cinque minuti nella sua vita, non solo la tua vita è stata sconvolta ma anche la sua, anzi forse la sua ancora di più. Parlaci e falla stare a suo agio, senza pressioni. Chi ti dice che poi non te ne innamori? Sbaglio o la stavi già cercando di testa tua?" Cazzo. Kevin aveva ragione, ragione su tutto. Imprecai mentalmente. "Merda Kev hai maledettamente ragione su tutto!" "Lo so amico, so di essere fottutamente intelligente." E rise. Ma purtroppo non c'era nulla da scherzare. Questa era una situazione indubbiamente di cacca. Cosa avrei detto ai miei, a mia sorella? O più semplicemente a tutti gli altri miei amici? Porca troia. Non ci volevo pensare, non ora. Guardai l'orologio: erano solo le undici e io oggi avevo il turno delle tre. Da spararsi. In più con questi pensieri sai che bellezza. Entrò, nel bar, un gruppo di ragazzi composto da due ragazze e due ragazzi. Andai al loro tavolo e una delle ragazze, erano tutti più o meno intorno ai diciannove anni, mi squadrò attentamente e mi sorrise sorpresa. Alzai un sopracciglio e non ci feci caso. "Allora ragazzi cosa vi porto?" Il ragazzo alto e con i capelli marroni, che si stava sbaciucchiando con la fidanzata, prese un cappuccino, la fidanzata prese un latte macchiato e un brownie, la ragazza che prima mi aveva squadrato prese un succo alla pesca mentre, quello che avevo intuito fosse il fratello, prese un caffè ristretto. Me ne tornai dietro al bancone, con lo sguardo della sconosciuta addosso. Non sapevo chi era e non mi ricordavo neanche se l'avevo vista da qualche altra parte. In poco, con l'aiuto di Kev, preparai l'ordinazione e gliela portai al tavolo. "Un succo alla pesca, un caffè ristretto, un brownie e un latte macchiato e, infine, un cappuccino, ecco a voi." Tornai al bancone consapevole di avere addosso lo sguardo della sconosciuta. Cercai di stare alla larga da quel tavolo il più possibile e, anche quando dovettero pagare, lasciai fare tutto a Kevin. Li osservai uscire e vidi la bionda, la fissatrice, che frugava nella sua borsa e che, dopo aver smesso, parlottava con gli amici e rientrava nel locale. Maledizione. Stava venendo da me. Mi si parò davanti e si sporse verso di me. "John, vero?" "Come fai a sapere il mio nome?" Non mi rispose ma tirò fuori un foglietto bianco, sul quale scrisse il suo numero, che mi infilò nella taschina del grembiule. Si sporse un pò di più. "Non diciamolo ad Ariadne." E detto questo se ne andò lasciandomi a bocca aperta. Kevin, che aveva assistito a tutto, venne verso di me e fece finta di sventolarsi con le mani. "Calda la ragazza." Mi sfilai il numero della misteriosa bionda dal taschino e glielo passai. Lo prese prontamente. Era capitato spesso che qualche ragazza lasciasse il proprio numero ma questa volta era stato veramente strano. Dio mio. Dovevo chiedere ad Ariadne se la conosceva visto che la ragazza sapeva il suo nome e, indubbiamente, sapeva anche di un legame che ci univa. "Tutto bene J?" Scossi al testa. "Vuoi prenderti una pausa?" Scossi la testa, tutto questo non poteva influenzare il mio lavoro. No. Ma, evidentemente, qualcuno, nell'alto dei cieli, mi voleva proprio male. Il campanello della porta d'entrata suonò per l'ennesima volta. Mi ero voltato un attimo e, quando mi rivolsi alla porta, c'era una persona che avrei pagato pur di vedere e di non rivedere.
Ariadne.

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