Capitolo 7: Panchine rivelatrici.

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Giorno 3: John
Erano le tre meno dieci. Tra poco avrei finito di lavorare e sarei potuto andare dove volevo. Cioè a prendere lei. Non vedevo l'ora. Dopo le scuse che ci eravamo scambiati in fretta quella stessa mattina ero sicuro che sarebbe andato tutto bene, anzi, più che bene. Non gli avrei più messo fretta. Volevo stargli vicino e farla ambientare in un posto a lei sconosciuto avrebbe richiesto tempo. Il tempo non mancava: avevo ancora quattro mesi prima che scomparissero dalla mia vita. Controllai di nuovo l'orologio del locale: meno cinque. Ne avevo abbastanza. Lasciai tutto ciò che stavo facendo e mi tolsi il grembiule. "Kevin devo assolutamente andare." "John ma mancano solo pochi minuti! E Barbara non c'è ancora!" Sbuffai. Non me me fregava niente. Avevo fretta. "Non me ne può fregar di meno. Io vado. Appunto perché mancano tre minuti me ne vado!" Uscì da dietro il bancone e andai nel retro. Staccai la mia giacca dall'appendiabiti, la indossai e poi mi ripresi, dall'armadietto, chiavi e portafoglio che infilai nella tasca del giubbotto. Rientrai in negozio e vidi Barbara entrare in quel preciso momento. Qualcosa mi diceva che ero un pò in ritardo. "Barbara che ore sono?" "Tre e dieci, comunque ciao anche a te." Porca puttana! Dovevo muovermi. Non persi tempo a salutare Barbara e mi fiondai fuori dal bar. Raggiungi in fretta la macchina, l'aprii e mi ci buttai dentro. Accesi l'auto e guidai fino alla libreria. Avrei potuto fare la strada a piedi ma volevo che salisse subito in macchina, nelle sue condizioni era importante che stesse comoda. Fuori dalla libreria, però, lei non c'era. Lasciai la macchina in doppia fila e uscii da essa per entrare in negozio e vedere se mi stava aspettando dentro. Aprii la porta del negozio e un' intenso odore di libri mi arrivò dritto al naso. Questo decisamente non era il mio mondo. Scacciai i pensieri e fermai una ragazza piena di rasta che portava lo stesso grembiule che portatava quella mattina Ariadne. "Scusa?" Le si fermò davanti a me e mi sorrise. "Salve! Mi dica, ha bisogno d'aiuto?" Che energia! Non avevo mai visto una ragazza che sprizzava gioia da tutte le parti come lei. "Emm...starei cercando Ariadne e so che lavora qua e che aveva il turno delle tre oggi. Sa dove posso trovarla?" Lei mi guardò perplessa e alzò un sopracciglio. "Ha aspettato qualche minuto dopo il suo torno ma poi se ne è andata, perché?" "Merda!" Mi passai una mano sul viso e corsi fuori dal negozio nonostante la ragazza mi stesse richiamando. Mi misi al volante e partii sgommando. Ora dovevo solo percorrere la strada che dalla libreria  portava alla metro o, se mi andava male, la strada che portava dalla metro a casa mia. Avevo quasi perso la speranza quando, pochi metri prima della metro, su una panchina, la vidi. Sospirai dalla gioia. Parcheggiai davanti a un piccolo bar di fianco alla metro e la osservai per qualche secondo dal finestrino. Nella sua semplicità era bellissima. Si stava massaggiando la pancia e aveva la maglietta tirata su, scoprendo quella leggera protuberanza. Aveva il viso rivolto verso la pancia e sorrideva, incurante delle persone che passavano e che la guardavano incuriositi. Sorrisi. Poggiai la testa sul volante e continuai a sorridere come un cretino. Mi scappò una risata e uscii dalla macchina. Attesi che il semaforo diventò verde ed attraversai la strada, pronto a raggiungerla. Mi avvicinai lentamente alla panchina, a lei, e mi ci sedetti vicino, tanto silenziosamente che non mi sentì. "Cosa senti?" Lei sussultò e si girò verso di me, arrossendo. Era in imbarazzo ma non si coprì la pancia. "Scusami." Risi. "Non ti preoccupare solo...la prossima volta avvisa." "Non ti vedevo arrivare e quindi io...io ho pensato che non saresti più venuto." Sbuffai e il sorriso sul mio volto si spense. Dio, cosa avrei dovuto fare con lei?! "Ti fiderei mai di me?" Lei sospirò ma non rispose. Una smorfia di dolore apparve sul suo viso ma nel giro di qualche secondo venne sostituita da un sorriso pieno di felicità. "Tutto bene?" Lei non rispose a parole ma mi prese la mano e l'appoggio sul suo ventre leggermente arrotondato e morbido. Un leggero colpo fece sobbalzare la sua pancia e la mia mano. Io spalancai gli occhi per lo stupore e spostai la mano più in giù. Un altro colpo, o meglio calcio, arrivò e io sorrisi. Era bello. Strano da ammettere ma era bello. Ed era mio figlio. Quella parola mi gelò il sangue nelle vene e di colpo tolsi la mano da sopra la pancia. Mi passai una mano sul viso e mi coprii gli occhi. Sentii una mano accarezzare la mia e spostarla dai miei occhi. "So che per te è difficile." Scossi la testa e la guardai negli occhi. Quegli occhi che quella sera mi avevano stregato, ammaliato. E io ero felice di esservi cascato. Ma non mi aspettavo tutte queste conseguenze. "Come hai fatto trovarmi?" Lei rise a quella domanda. "Mia sorella, Katy, conosceva il ragazzo che aveva organizzato la festa. Era un suo vecchio amico dell'università. Lei ti aveva visto parlare con lui. Anche se io sapevo solo il tuo nome è stato facile chiedere a questo suo amico se sapeva il tuo cognome e, con un pò di fortuna, il tuo indirizzo. Tutto questo lo sapevo da circa tre mesi." Ero sorpreso. Come mai non mi aveva contattato prima? "Come mai hai aspettato così tanto per venire da me? Se già sapevi di essere incinta e giá sapevi tutte le informazioni?" "Pensavo di riuscire a cavarmela da sola con, magari, il sostegno dei miei genitori. Ma, purtroppo, i miei, una volta scoperta la mia gravidanza, mi hanno sbattuto fuori di casa. Sarei andata da mia sorella ma, essendo via per lavoro, l'unica mia possibilità eri tu." Chiusi gli occhi e pensai. Pensai alla dolce e fragile diciannovenne che avevo di fianco. Al fardello che si portava dentro, letteralmente, e a quanto doveva aver sofferto per il rifiuto dei suoi genitori. E poi, come se non bastasse, arrivavo io che li rifiutavo. Che dicevo di aiutarli ma con la condizione di sparire. Non sapevo come potesse sentirsi ma immaginavo non bene. Mi sentivo un verme. "Mi dispiace." Lei si girò verso di me e mi guardò, sorpresa. "Perché ti dispiacci?" "Perché se non fosse stato per me a quest'ora non saresti in questo pasticcio." Lei rise. "Mi ricordo che io non ero contraria a quanto abbiamo fatto." Scoppiai a ridere e lei arrosì. "Perché ridi?! È vero!" Dopo qualche secondo di esitazione si mise a ridere anche lei. Scosse la testa. "Continua a calciare da stamattina, da quando Isbel mi ha fatto ridere perché avevo sbattuto la testa contro una mensola." Sorrise nuovamente, era bello vederla così sorridente. Non erano stati esattamente bei giorni questi. "Stai bene? Ti fa tanto male?" Non sapevo esattamente come comportarmi. Lei rise leggermente. "È normale che calci al quinto mese. Sarebbe preoccupante il contrario." Mi rilassai, era tutto normale. Non c'era nulla di cui preoccuparsi. Era strano doversi preoccupare e, quando mi sarei abituato, loro ormai se ne sarebberò già andati via. "Bene." Lei annuii e sospirò. "Cosa farai una volta che il bimbo sará nato?" Lei aggrottò le sopracciglia. "Sinceramente non lo so, non so cosa farò domani...non pretendere di sapere cosa farò tra quattro mesi." Scoppiai a ridere e lei mi seguì, lasciandosi andare sempre di più. "Hai perfettamente ragione, scusa!" "È bello che ti preoccupi per noi o, almeno, per me. Mi fa sentire protetta." "Finché posso vorrei esserci...so che non basterà ma è ciò che vorrei." "Non basterà mai John. Il mio ricordo di te non basterà mai, il non esserci stato rimarrà sempre. La mancanza di un padre rimarrà per sempre nel suo cuore e, per quanto amore io potrò mai dargli, a lui mancherá sempre una parte." Fu più doloroso di un pugno in faccia ma, purtroppo, era la verità. Mi alzai dalla panchina e mi allontanai da lei il più possibile. La sentì richiamarmi ma per una volta volevo essere sordo. "John, aspetta! Aspetta, ti prego!" Ma cosa stavo facendo? Lei era incinta e non avrebbe mai dovuto faticare. Mi fermai tutto d'un colpo e mi voltai: era piegata sulle ginocchia e faticava a respirare. Cazzo. La raggiunsi velocemente, non era molto distante, e la sorresi. La presi per le braccia e la feci appoggiare su di me, in modo da essere sorretta dal mio corpo. Respirava affannosamente e stava sudando freddo. "Scusami, scusami ti prego. È stata tutta colpa mia." Le accarezzai la fronte con la mia mano fresca in modo da rinfrescarla. Mi sembrava di essere tornato a stamattina. "Perdonami John, sono stata troppo dura con te, ti sono grata per quello che stai facendo per noi e non potrò mai ringraziarti abbastanza. Sei la nostra salvezza." Sorrisi e gli accarezzai una guancia. "Ora ti porto in macchina, ok?" Lei mi sorrise e annuì. La sorressi fino alla macchina e la feci sedere sul lato del passeggero della mia auto. "Stai meglio ora?" Lei annuì e io girai intorno alla macchina e presi il posto del guidatore. "Ho solo avuto un calo di forze, capita quando si è in gravidanza." Le sorrisi, accesi la macchina e partii. "Come fai a sapere tutte ste cose?" Lei arrossì e guardò fuori dal finestrino. Quando parlò non mi guardò. "Tre mesi fa ho avuto la prima ecografia, era un lunedì mattina e avevo una paura boia. Non sapevo cosa dovevo fare e in più mi sentivo sola. I miei genitori non c'erano, non c'era mia sorella e in più nella clinica c'erano solo donne di mezza età con il proprio marito e io neanche quello avevo." Un sorriso amaro fece breccia sul suo viso e socchiuse gli occhi. Aspettai che continuasse. "Allora presa dal panico uscii dalla clinica in fretta e furia, ignorando l'appuntamento con la dottoressa. Ma poi mi sentii così in colpa che dopo qualche minuto  rientrai, rubai tutti i fascicoli sulla gravidanza possibili e inimmaginabili e tornai a casa." Rise. "Passai tutta la notte a leggerli e a memorizzarli. Così ho scoperto tutto ciò che occorreva sapere." Risi e lei mi seguì. "Furba la ragazza...ma sai che non potrai evitare le cliniche per sempre?" Lei mi guardò e annui. "Dove vuoi andare?" Ci pensò un' attimo e poi sorrise, con gli occhi che le brillavano. "A casa, hai dvd?" Annuii, che domanda banale. "Allora casa tua è perfetta!" Sorrisi, per la sua felicità. "Ma se tu avevi altri piani lasciami pure a casa." "Guarda che sfiga, non ho nuuulla da fare oggi!" Lei rise e battè le mani come una bambina piccola. Guidai velocemente verso casa, avevo voglia di passare una serata in tranquillità con Ariadne. Sembrava strano ma ne avevo voglia. Parcheggiai la macchina e la spensi. Scesi dall'auto, feci il giro di essa e aprii la portiera ad Ariadne. "Riesci a scendere da sola?" Lei annuì e scese velocemente dalla macchina. Stava visibilmente meglio. Chiusi l'auto, aprii il portone del nostro edificio e salimmo le scale fino al mio appartamento. Aprii la porta di ingresso ed entrammo. "Vado un' attimo a cambiarmi e tra dieci minuti ci troviamo in soggiorno, ci stai?" Io risi e, sicuro, annuii. "Al mio tre partiamo. Uno...due...tre!" Partimmo come dei razzi, ognuno nella propria stanza. Buttai sulla poltrona il mio gibotto di pelle e mi tolsi velocemente maglia e pantaloni. Indossai un vecchio paio di pantaloni lunghi fino al ginocchio rossi e una canotta leggera bianca. Tolsi scarpe e calze e rimasi, rigorosamente, a piedi nudi. Adoravo stare a piedi nudi. Mi guardai allo specchio: poteva andare bene. Uscii da camera mia e raggiunsi il soggiorno: lei ancora non c'era. Andai verso la televisione, mi sedetti a terra e aprii i mobiletto a fianco alla tv per vedere che film avevo. Mmm...che indecisione. "Hai 'Twilight'?" Sbiancai. "No" Lei mi guardò negli occhi e mi sorrise malefica. "Ops, che strano! Avrei detto di averlo visto! Li guarda, proprio affianco a te." Io deglutii. Scossi la testa. Lei, invece, annuì. "Non puoi farmi questo!" Lei rise, divertita, e si catapultò sul divano. "Arrivo Edward!"

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