Capitolo 14: Piccoli svaghi e grattini.

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Giorno 6: Ariadne
Sbuffai e poggiai il cellulare di fianco a me nel letto. La noia mi stava uccidendo. Era da un'ora che io e John eravamo tornati a casa. Avevamo mangiato un panino al suo bar, per mancanza di voglia di cucinare, ed eravamo tornati a casa. Al lavoro era filato tutto liscio, tranquillo e monotono come sempre. Sbuffai un'altra volta, mettendoci più enfasi. Fuori il sole splendeva e dentro non si sentiva nessun rumore. Segno che John era nella sua stanza. Mi tirai su dal letto e mi passai una mano tra i capelli, che oggi erano liberi. Mi infilai gli occhiali da vista e mi alzai. Andai verso uno degli armadi, lo aprii e presi un pantaloncino grigio stile tuta. Mi sfilai quello di jeans e indossai quello appena preso. Volevo stare comoda. Mi diedi un'occhiata allo specchio e a piedi nudi mi diressi verso la porta della camera. La aprii e uscì dalla camera, lasciandola spalancata. Percorsi il corridoio e arrivai davanti alla stanza di John, senza far rumore. Aprii leggermente la porta e spiai dentro. La luce del sole illuminava la stanza e faceva brillare la pelle leggermente abbronzata di John. Sorrisi. Era così bello mentre dormiva. Entrai silenziosamente nella camera e mi avvicinai alla grande vetrata. Osservai le persone affollare le vie di New York, correre da una parte all'altra e non fermarsi mai. E, in quel preciso momento, non le invidiai. Vivere una vita nella fretta e nella confusione era proprio quello che volevo evitare. Riportai l'attenzione su John e mi avvicinai a lui. Mi appoggiai al letto e gli accarezzai la guancia. Lui si mosse e si girò dall'altra parte, dandomi le spalle. Sorrisi e mi alzai. Andai a sedermi sulla poltrona di fianco alla finestra e chiusi gli occhi, facendomi cullare dai rumori che provenivano dalla strada. E, presto, mi addormentai.

~•~•~

Arricciai il naso e mugolai. Mi stiracchiai e mi girai dall'altro lato, quello da cui non arrivava la luce. Aprii gli occhi ma li richiusi immediatamente...troppa luce. Mi rannicchiai di più su me stessa e mi passai una mano sul viso, per risvegliarmi. Sbadigliai e aprii gli occhi, definitivamente, e, ad aspettarmi, trovai un paio di occhi marroni fissi nei miei. Ci osservammo per qualche secondo fino a quando lui non sollevò la mano e mi accarezzò una guancia, tiepida per il sonno. Chiusi gli occhi e mugulai, se c'era una cosa che io adoravo erano le coccole e i grattini. Lo sentì ridere e io riaprii gli occhi. Mi tirai su e lui mi seguì a ruota. Mi guardai in giro e constatai di non essere né sul mio letto né nella mia camera. Osservai John e gli sorrisi. Mi sdraiai su di lui e posai la testa sulla sua pancia. Mi venne tutto molto naturale. Gli accarezzai il braccio, disegnando forme immaginarie. Lui si irrigidì e rimase fermo immobile. Io mi resi conto di ciò che stavo facendo e della sua reazione e, istintivamente, tolsi la mano. Feci per alzarmi ma la sua mano sul mio braccio mi bloccò e mi riportò contro la sua pancia piatta e tonica. Mi prese la mano e me la pose di nuovo sul suo braccio. Risi e riiniziai a fargli i grattini. Lui si lasciò andare e chiuse gli occhi. "Adoro i grattini." Sorrisi e lo guardai, mi brillavano gli occhi. "Anche io adoro i grattini!" Lui rise e chiuse gli occhi. Guardai fuori dalla finestra e una voglia impellente di uscire mi catturó. Il sole estivo mi attirava a sé e mi gridava di uscire, di godere dei suoi raggi. Mi tirai su dal letto, in posizione eretta, e guardai John. Lui mi guardò in modo interrogativo, triste del mio allontanamento. Lo capivo. I grattini davano altamente dipendenza. "Ho voglia di uscire, John." Lui si tiró su, seguendomi, e mi accarezzò i capelli. Prese il cellulare appoggiato di fianco a lui e controllo l'orario. Io, da dietro, sbirciai. Il cellulare segnava le cinque in punto. Attirarono, però, la mia attenzione alcuni messaggi che lui aprì: erano di Rose.

Ho bisogno di parlarti.
-Rose, 16.00
Rispondimi.
-Rose, 16.15
John, amore mio, ti prego.
-Rose, 16.30
Vediamoci. Quando vuoi.
-Rose, 16.59

Mi girai dalla parte opposta, per non vedere quei messaggi. Mi davano fastidio...e non poco. Non sapevo perché ma ero gelosa. Forse ero gelosa di quelle attenzioni che io non avrei mai ricevuto. Forse ero invidiosa di quel rapporto che io non avrei mai avuto l'occasione di creare. Di quel rapporto che, magari, in un altro momento, in altre circostanze, sarebbe potuto nascere...e magari durare. Sbuffai e mi alzai di scatto. Lui spense il cellulare immediatamente e mi guardó allontanarmi e uscire dalla sua camera, guardandomi sorpreso e accigliato. "Io voglio uscire, se tu non vuoi uscire esco da sola." Il mio tono era freddo, apatico. Lunatica fino al midollo. Gelosa fino al midollo. Sentii i passi di John dietro di me, come se fossero la mia ombra. Presi dall'armadio le mie vans porpora e le indossai. Presi la mia borsa e mi girai verso la porta, dove sapevo si trovava John. Lo guardai, inarcando le sopracciglia, interrogativamente. Lui, senza occhiali, sorrise. "Sai che la gelosia uccide?" Sbuffai e incrociai le braccia al petto. "Esci con me o no? Io vorrei andare." Lui sorrise, vincitore di una grande battaglia, e scappó velocemente in camera sua. Io mi diressi verso l'entrata di casa ed aprii la porta. In meno di dieci secondi comparve John con un paio di bermuda di jeans, una canotta bianca, delle All Star nere e bianche e i suoi soliti occhiali da vista. Rimasi ad osservarlo per qualche secondo. Era bellissimo e, quegli occhiali, gli davano un'aria molto sexy e intelligente. Arrossii per quello che avevo pensato e insieme uscimmo di casa. Lui chiuse a chiave la porta e insieme scendemmo le scale, uscendo finalmente dall'edificio, al caldo cocente di New York. "Allora, signorina, dove vuole andare di bello?" Risi al suono di quel nomignolo affettuoso. Feci finta di pensarci. Sapevo dove volevo andare. "Mmm...Central Park!" Lui annuì vigorosamente. "Ai suoi ordini, signorina!" Ridemmo insieme e attraversammo la strada, per essere più comodi. Percorremo in pochi minuti i pochi metri che ci dividevano da una delle entrate di Central Park, anche se totalmente in silenzio. Ero felicissima. Avevo sempre voluto visitare Central Park ma purtroppo non ne avevo mai avuto l'occasione e, anche se ero venuta a trovare mia sorella quella fatidica settimana, non ero riuscita a visitare più di tanto la città e le sue bellezze. Ero tornata a casa portandomi dietro solo un grande vuoto e una grande sorpresa. Entrammo finalmente nel grande parco e il mio sguardo si illuminò come non succedeva da tempo. Era bellissimo. Uno spettacolo. Ogni pianta era in fiore e i raggi del sole illuminavano quella magnifica distesa d'erba e fiori. Le persone riempivano il parco: c'era chi faceva jogging o chi portava a spasso il cane, c'erano tate con bambini o, semplicemente, famiglie felici che volevano passare un tranquillo pomeriggio all'aria aperta. Le panchine erano occupate da dolci coppie, di tutte le età, o da anziani che occupavano il loro tempo leggendo il giornale o contemplando la bellezza di quel posto. Mi allontanai da John e mi buttai a capofitto dentro il parco, girandomi da tutte le parti, sorridendo. Mi girai verso John e gli sorrisi. Mi fermai un'attimo, permettendogli di raggiungermi. Dopo avermi affiancato riprendemmo a camminare, passeggiando per i parco. "Sembra che tu non abbia mai visto un parco in vita tua." Risi e lui mi seguì. Quel giorno ero particolarmente felice. "Non né ho mai visto uno così bello in tutta la mia vita. Tutto qui." Dissi sinceramente. Lui mi guardò e si avvicinò leggermente di più a me. Arrossii. "Mi piace." Lo guardai interrogativamente. "Che cosa ti piace?" Lui si sistemó gli occhiali e mi guardó. "Questo tuo lato. Questa tua spensieratezza." Lo guardai. "Ho diciannove anni, John. Se non sono spensierata ora quando potrò mai esserlo? Quando dovrò occuparmi di un bambino da sola? Quando dovrò fare la madre a tempo pieno e rinunciare alla mia giovinezza?" Lui abbassò lo sguardo, continuando a camminare. "Non voglio ferirti ma questa è la verità." Lui annuì. La verità faceva sempre male, anche se detta nel modo più gentile possibile. Mi fermai, improvvisamente, e lo tratteni per una mano, facendolo fermare. Gli presi anche l'altra e gliele strinsi. "Ti chiedo solo una cosa, John. Voglio vivere questi mesi bene, voglio essere spensierata e felice anche con un pancione gigante, per questo ti chiedo di aiutarmi ad esserlo. Almeno per poco." Lui annuì e, di slancio, mi abbracciò. Io rimasi all'inizio immobile, quasi congelata ma, poi, mi lasciai andare a quel calore, a quella sensazione di protezione che non provavo più con nessuno da anni. Ricambiai l'abbraccio e poggiai la testa sulla sua spalla. Sospirai e dopo poco mi staccai dall'abbraccio. Dovevo ancora abituarmi a questi segni di affetto e a queste nostre 'toccate e fuga', nonostante mi ricordassi bene come fosse il suo tocco sulla mia pelle, come fosse il suo respiro sul mio collo. Arrossii immediatamente. Ricordavo bene tutti i particolari. Scossi la testa e riprendemmo a camminare. Per essere un pomeriggio caldo ed estivo il grande parco era tranquillo e rilassante. "Raccontami di te." Mi guardò interrogativamente e io sorrisi. "Cosa vuoi sapere?" "Tutto. Non voglio passare quattro mesi della mia vita con uno sconosciuto." Lui annuì. "Saggia osservazione, madame." Risi. "Allora...mi chiamo John Dawson, ho ventidue anni, vivo a New York..." Gli mollai una gomitata nelle costole e lui si piegò, facendo finta di essersi fatto male. Risi e lui con me. "Seriamente John. Se vuoi dopo ti racconto un pó di me." Rise nuovamente. Sbuffai. "Un pó di te? Così non è allettante la proposta." Mi portai una mano al viso, sconsolata. "Racconta!" Gli ordinai. Mi guardó e annuì, sconfitto. Mi battei il cinque mentalmente. "Allora, sono nato nella periferia di New York ma a vent'anni mi sono spostato in centro con mia sorella. Mia sorella ha ventotto anni e da poco è andata via, fa la ginecologa, come ben sai, e adesso vive vicino allo studio in cui lavora. I miei genitori sono erano due dottori e sono sempre stati insieme, ovviamente fin a quando mia madre non è venuta a mancare. Fine." Annuii. Lui mi guardó... intensamente. "Come si chiamano i tuoi genitori?" "Cassandra e Harold mentre mia sorella si chiama Violet." "Che bel nome Violet!" Lui sorrise e annuì. "Ora tocca a te. Racconta." Abbassai lo sguardo. Non so se ero pronta per parlare di me...dopotutto lui era un totale sconosciuto. Chiusi gli occhi e sospirai. Pensavo che omettere qualcosa non sarebbe stato grave. "Nata e cresciuta a Washington, genitori sempre insieme. Ho una sorella, Katy, di venticinque anni che lavora e vive qui a New York e un fratello, Daniel. Sempre vissuta con i genitori...fino ad ora ma, be, la storia la sai." Lui annuì. "E tuo fratello? Di lui non mi hai detto nulla." Affrettai il passo e salimmo su un ponte bellissimo. Tutto bianco, con le basi in mattone. Collegava due sponde divise da un laghetto. Questo parco era pieno di sorprese. Ci salimmo sopra e ci fermammo lì, affacciandoci dalla balaustra sinistra. "Di Daniel non ti ho detto nulla perché non so nulla." Non so se era giusto quello che stavo facendo, se era giusto aprirmi con uno quasi sconosciuto. Sapevo solo che di lui mi fidavo e che, per la prima volta, avevo voglia di aprirmi veramente con qualcuno. "Ci ha abbandonati quando io avevo undici anni." Mi girai verso di lui e aspettai il verdetto. Non sapevo cosa aspettarmi. Silenzio o pena. Qualunque cosa avesse scelto di esprimere sarebbe stata comunque sbagliata perché lui non sapeva tutta la storia. "Che stronzo." Mi girai di scatto verso di lui. Questa reazione era proprio quello che non mi aspettavo. Lui mi guardó di rimando, sostenendo il peso del mio sguardo senza battere ciglio. "Senza offesa ma...questa è la verità. Che motivo aveva di abbandonare la sua famiglia? Solo una persona egoista farebbe questo." Abbassai lo sguardo. C'erano tante motivazioni che non potevo dirgli. Ma quello che mi disse mi fece riflettere. Mio fratello, quel Daniel che avevo sempre amato, poteva essere così egoista? Lasciarmi sola, farmi sentire non amata e indesiderata. Abbassai lo sguardo e una lacrima solitaria cadde nel lago. "Non so perché lo fece, non lo so." Lo sentì avvicinarsi a me e una sua calda mano mi accarezzò la guancia, asciugando i residui della lacrima. Sospirai. Avrei potuto stare così tutto il tempo, senza stancarmi mai. Tirai su leggermente con il naso e mi ritirai su. Gli sorrisi e scossi la testa. Mandando via la tristezza e i ricordi. "Puff...andiamo a farci un giro." Lui sorrise debolmente ma mi accontentò. Scendemmo dal ponte e controllai l'orario: sei. Mi guardai in giro e notai che il parco si stava notevolmente svuotando, lentamente. Era tardi e, nonostante ci fosse ancora molta luce, si avvicinava l'ora di cena. "Sai, io vengo qui quando il suono dei miei pensieri supera il suono della città in movimento. Mi rilassa e mi svuota la mente." John finí di parlare e si giró verso di me. "Sai, anche io avevo un posto così. In fondo alla mia via c'era un piccolo bar, quasi sempre vuoto e molto tranquillo. Mi ci rifugiavo quando casa mia diventava troppo piccola." Sospirai. "Quando le urla sovrastavano i miei pensieri." Sussurrai. Lui si fermò e mi guardò di sbieco, prendendomi la mano. Mi girai e gli lanciai un'occhiataccia, intimandogli di non chiedere nulla, e tolsi la mano dalla sua. Avevo aperto la bocca e rivelato troppo. Non volevo che venisse a conoscenza del mio passato. Avrebbe pensato troppo male di me. Abbassai lo sguardo, pentendomi subito di ciò che avevo fatto. Lui non lo meritava. Abbassò lo sguardo e si girò, mortificato. Riprese a camminare dalla parte opposta, tornando indietro. Mi mordicchiai il labbro e gli corsi dietro. Lo presi per il braccio e, stavolta, toccò a me abbracciarlo. Me lo strinsi al petto e lui ricambiò. Accostai le labbra al suo orecchio, alzandomi sulle punte per arrivarci. "Mi dispiace." Lui annuì, mi accarezzò i capelli e si abbassò alla mia altezza, facendo sfregare le nostre guance. Si staccò dall'abbraccio e mi prese il viso tra le mani, guardandomi dritto negli occhi. "Torniamo a casa." Annuii, continuando a guardarlo negli occhi. Poi. Avvene. Avvicinò il suo viso al mio e lasciò un leggero bacio sulla mia fronte. Leggero come l'ululato del vento. Si allontanò da me e mi sorrise. Io sorrisi di rimando e, come in trance, mi lasciai trascinare da lui. Il mio nuovo quasi e provvisorio punto fermo.

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