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Sbiadite e un po' sfocate, le immagini che giungevano da Sumatra sembravano perdere di credibilità attraverso il vetro monocromatico dell'attempato televisore: sembrava di vedere il trailer cinematografico di un nuovo spettacolare film di Emmerich, e le interferenze del vecchio Phonola, ricordo di una vita passata e lontana, disperdevano ulteriormente la drammaticità dei fatti.

L'elegante scrittoio in mogano, intarsiato in ebano e acero, raccontava di un'Inghilterra dei primi del novecento, quando per strada si poteva sentire il galoppo dei cavalli, che trainavano raffinati signori in carrozza, e qualche nota di jazz tingeva le livide strade di Londra, sgorgando dal rauco suono di un sax.

Nel posacenere un cubano si consumava lentamente, diffondendo nell'aria l'aroma inconfondibile del tabacco, avvolgendo lo studio in una ondeggiante nuvola di fumo grigio, mentre un pregiato brandy colorava il corpo terso di un bicchiere di cristallo.

Sull'elegante scrittoio, una lampada Tiffany, con i suoi crochi gialli sulla superficie di vetro, sbozzati contro un arancio chiaro, illuminava notti insonni tra finanze e contabilità, e le pene di un amore che non sarebbe mai più ritornato.

Dinanzi alla porta-finestra, accanto all'elegante scrittoio, un albero di Natale, scintillante e silenzioso, si affacciava su Londra, ma per le vie della città non si udiva più il rumore degli zoccoli dei cavalli, non vi erano più melodiche note di jazz ad animare le strade della città, né distinti signori in carrozza: tutto era caos, tutto era frenetico e veloce: fast-food, traffico, il rombo dei motori delle auto, la metro ed un popolo di automi che correva veloce per le strade della metropoli: al lavoro, a casa, o in qualsiasi altro posto di un mondo in cui il tempo sembra essere il maratoneta da staccare lungo la staffetta della vita.

Nascosto dietro un quotidiano, tra le colonne delle quotazioni in borsa, le previsioni del tempo, le pagine di cronaca e una nube di fumo, vi era Edward Anderson, il quale, come ogni giorno, di buon mattino, aguzzava i suoi occhi verdi per conoscere la situazione economica del mondo e il crescente valore dei suoi investimenti.

Il silenzio dello studio era rotto dallo scoppiettante ardere del fuoco nel grande camino in pietra, su di esso l'imponente ritratto di una ridente fanciulla, dal malinconico sguardo, guardava dall'alto della parete quel silenzioso studio.

Come un bagliore nel buio, uno squillo del telefono squarciò il fitto silenzio.

«Come dice? Sumatra?» domandò Charles, il maggiordomo, al suo interlocutore, con tipico accento inglese e un diffidente stupore; "riferirò" rispose freddamente poi, dopo aver riagganciato il ricevitore, si diresse verso lo studio.

Erano trascorsi ormai dieci anni da quando Charles lavorava per Edward Anderson, e sapeva bene quanto detestasse essere disturbato quando si rintanava nello studio al mattino. In tanti anni di servizio l'aveva fatto solo una volta: quando l'anziana signora Anderson, dopo una lunga malattia, morì. Eppure anche in quell'occasione Edward sembrò seccato.

Lentamente Charles percorse il corridoio che dava alle scale. Giunto dinanzi alla grande scalinata in castagno, coperta da un folto tappeto rosso, sospirò, poi, dopo aver sistemato i bottoni del suo gilet grigio, salì con calma.

Nel ripensare al tono cupo e misterioso del suo interlocutore, il maggiordomo si agitò ulteriormente: in tanti anni di servizio, l'uomo non aveva mai avvertito un simile disagio nel comunicare una semplice telefonata di lavoro, ma quella gli parve diversa dal solito. L'interlocutore aveva un tono dimesso e preoccupato, diverso dai tanti imprenditori e soci che confermavano avvenute transazioni, quotazioni in ascesa, contratti milionari firmati con successo.

Giunto davanti alla porta dello studio, l'uomo indietreggiò di qualche passo, fermandosi allo specchio che era nel corridoio: si guardò attentamente, quasi per tirare fuori quel coraggio che ancora gli mancava. Estrasse il pettine, che aveva sempre nel taschino della sua giacca scura, e lo passò tra i capelli bianchi, tirandoli indietro.

Finalmente avanzò, diede tre colpi decisi alla porta prima di entrare e disse:«Buongiorno Signor Anderson. Ha dormito bene?».

Nel vedere entrare Charles, Anderson aggrottò le folte sopracciglia scure, pensando che vi sarebbe stato un valido motivo per quell'interruzione, e con tono brusco e secco disse:«Va bene Charles, evitiamo inutili convenevoli. Cosa c'è?».

Udendo il tono di Anderson, Charles ritenne che dovesse essere chiaro e succinto: «Signore, ha telefonato il Signor Richardson e la prega di richiamarlo quanto prima, si tratta di Sumatra».

«"Sumatra" hai detto?» domandò Anderson sorpreso.

«Sì, Signore, Sumatra» e dopo un inchino accennato, l'uomo, apprestandosi ad uscire, si congedò.

Ma Anderson, senza proferire parola, fece solo una smorfia e con la mano in cui stringeva il sigaro, fece cenno di andare.

Quando fu nuovamente solo nell'ufficio, Anderson alzò il telefono come una furia e compose il numero di Andrew Richardson.

«Edward, dove diavolo sei?» disse Richardson non appena alzò il ricevitore.

Stranito e irritato per il tono dell'uomo, Edward rispose bruscamente:«Dove diavolo volevi che fossi?».

«Tutto il mondo ne parla...» proseguì Richardson, agitandosi.

«Ma di che diavolo parli?!?» domandò furibondo Anderson.

«Un violento maremoto ha colpito l'isola di Sumatra e tutto il sud-est asiatico».

«E a me dovrebbe importare qualcosa?» domandò Anderson indifferente all'accaduto e sollevato per quella che credeva una sciocca e inutile interruzione del mattino per una notizia che avrebbe potuto ascoltare più tardi al notiziario della sera.

«Credo proprio di sì» rispose Richardson con aria minacciosa.

Travolti dal destinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora