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Intanto a Londra un'elegante Rover 600i verde scuro si fermò davanti alle iniziali dorate, EA, effigiate sulle ante del mastodontico cancello nero in ferro battuto dell'austera villa di Edward Anderson.

Con la pressione di un pulsante, sulla portiera in radica di noce dell'auto, l'uomo fece dissolvere il vetro fumé del finestrino dalla parte del conducente.

Poi, sporgendosi, allungò il braccio e premette il tasto sulla colonnina elettronica alla destra dell'auto.

Una telecamera virò lentamente verso la Rover: un ronzio accompagnò quel movimento, e un altro, più silenzioso, si udiva mentre lo zoom ottico permetteva all'occhio elettronico di focalizzare il soggetto.

Una voce maschile, lievemente metallica, giunse dal citofono: «Desidera?» chiese con caratteristico garbo inglese. Irritato per quella sorta di check-in, aspramente l'uomo rispose: «Apra il cancello! Sono l'avvocato Richardson, ho un appuntamento con Edward Anderson». Per tutta risposta, Richardson udì solo uno scatto provenire dall'interfono, solo allora intuì che il ricevitore era stato riagganciato.

Seccato ulteriormente, l'uomo alzò gli occhi al cielo e sbuffò. Batté furiosamente i pugni sul volante, poi suonò con insistenza il clacson.

Dopo qualche istante di silenzio, Richardson sentì il cigolio del ferro, mentre l'imponente cancello si schiudeva davanti ai suoi occhi. Ingranò la prima e lentamente entrò: l'auto percorse il lungo viale alberato, al contatto con il suolo in pietra, la carrozzeria vibrò. L'andana si estendeva per circa sessanta metri, intervallati da un rondò, al centro del quale troneggiava un Cupido alato con il cuore trafitto, ma la postura non era gloriosa, al contrario, la divinità greca appariva dimessa, in ginocchio, con le ali spiegate, la mano destra sul petto, quasi a voler strappare quel suo stesso dardo che gli aveva trafitto il cuore, mentre con la mano sinistra, rivolta verso il cielo, reggeva l'arco. "Il Pianto di Amore" questo il nome della fontana sulla quale sormontava la bronzea statua del dio alato.

Oltre la fontana, alle spalle di Cupido, nascosta tra le chiome delle betulle, vi era la villa di Edward Anderson. L'edificio era un'imponente costruzione rettangolare di stampo vittoriano, su due livelli. Al centro della facciata vi era un elegante portone in legno, ai lati del quale due scalinate in pietra conducevano direttamente al piano superiore dell'edificio, dov'era il terrazzo all'aperto sul quale davano le ampie porte-finestre del gran salone delle feste. Si sentiva, nelle forme della villa, un'eco lontana di architettura gotica.

Nell'avvicinarsi alla villa, anche Richardson, per qualche istante, si sentì smarrito, inerme, impotente ma, uscito dal labirinto dei suoi pensieri, trasalì, ricordando il motivo che lo aveva spinto ad andare dall'irascibile Edward Anderson di buon mattino.

Sceso dall'auto, Richardson guardò da vicino l'imponente edificio, si avvicinò verso il portone e suonò: una polifonia di campanelle annunciò il suo arrivo. L'austera porta in legno si aprì, dietro di essa comparve Charles, il maggiordomo, che cordialmente l'accoglieva. "Si accomodi Signor Richardson" disse con tono ovattato. Gli interni della villa erano forse più sorprendenti dell'esterno: la villa una sorta di cassetta d'oro che al suo interno conteneva gemme ben più preziose. Come un museo privato, Villa Anderson vantava pezzi d'autore, molti dei quali esemplari unici. Si poteva così osservare, negli interni finemente arredati, il celeberrimo Tondo Doni, che ritraeva la Sacra Famiglia, uno dei capolavori di Michelangelo, splendere, come l'astro più luminoso in una stellata notte d'estate, sul grande camino in marmo nero, al centro del gran salone.

Preziosi persiani colorati ricoprivano il pavimento arancio in marmo lucido, che rifletteva i contorni indefiniti del pregiato mobilio e dei divani in alcantara.

La pendola suonò le nove, e mentre Richardson, sbalordito, si lasciava sedurre dal lusso che la villa prepotentemente ostentava, l'eco della voce di Edward si propanò dal corridoio semioscuro fino al gran salone: «Se ti ha condotto fin qui, a quest'ora, la catastrofe dev'essere stata davvero..."devastante"» ironizzava, procedendo verso l'uomo con passo sicuro.

«Avrei fatto prima a parlare col papa!» brontolò Richardson.

«Ma mio caro Andrew» disse Edward avanzando spavaldo e indifferente «Io tengo in mano la finanza, gestisco una società, non prego per il mondo...».

Edward si avvicinò al bar, ed estrasse una bottiglia dal bancone: «Siedi» gli disse, versando un brandy e porgendolo all'amico.

«A quest'ora?!»

«Come vuoi!» e sedendogli di fronte cominciò a bere; dopo un profondo respiro domandò sorridendo: «Come si chiama la spada di Damocle che pende sulle nostre teste?». Nella domanda s'intuiva ancora una vena ironica. Stranamente Anderson non era arrabbiato, ma piuttosto incuriosito dall'ansia e la preoccupazione del suo avvocato e portavoce della sua società. Non riusciva a sentirsi indifeso nella sua grande e sfarzosa villa vittoriana, circondato dalle belle cose conquistate con tanta fatica e pagate al caro prezzo della sua solitudine, convinto di aver acquistato con il suo denaro la sicurezza che non avrebbe mai potuto perderlo.

Con un sorso finì il brandy e fissò l'amico attraverso il corpo trasparente del bicchiere, eclissando il suo sguardo, poi, poggiatolo sul tavolo tacque, intimorito dall'aspetto severo di Richardson.

L'aria si fece pesante, il silenzio era forse più terribile delle parole che temeva di udire, ed Anderson cominciava a sentire un profondo senso di disagio, quasi presagisse che il mondo che gli dava tanta sicurezza stesse cominciando a sfaldarsi.

Anderson fece un respiro profondo e con tono serio disse: «Avanti, parla, sono tutto orecchie». Nella sua voce adesso serpeggiava l'ombra della paura di assaporare il frutto della conoscenza, di aprire gli occhi sul mondo della verità, di scorgerne uno meno dorato, al di là delle alte mura delle sue certezze.

Con un tono dimesso lo sguardo basso e l'amaro sapore della sconfitta sulla pelle, Richardson disse: «Siamo rovinati, Edward!» ammettendo la resa come un pugile battuto sul ring.

Edward accese un mezzo cubano, che era nel taschino della sua giacca, aspirò, sentiva nella sua bocca l'aroma del tabacco e, dopo aver esalato una nube di fumo disse: «Come dici?».

«Siamo davvero rovinati, Edward!» ripeté Richardson con un tono mesto.

Edward ascoltò in silenzio, le sue labbra si schiusero, ma non un suono uscì dalla sua bocca.

«Non abbiamo più nulla...Sumatra...»

«Cosa c'entra Sumatra?» domandò perplesso Anderson.

«Le azioni che avevamo acquistato non valgono più niente: tra le mani abbiamo solo un mucchio di carta straccia.»

«Come sarebbe a dire "non valgono più niente"? E cosa c'entra Sumatra con i nostri affari?» domandò irato Edward.

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Travolti dal destinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora