PROLOGO

76 6 0
                                    

Il mondo sfrecciava a una velocità allucinante fuori dal finestrino sudicio dello scompartimento. Il treno iniziò a rallentare rumorosamente, con qualche sobbalzo, e Lauren si alzò, abbandonando il proprio sedile, raccogliendo da terra lo zaino e dirigendosi verso le porte. Afferrò la maniglia e tirò con tutte le sue forze facendo cigolare la porta di pesante metallo sui cardini vecchi. Lo spazio angusto dietro la sala macchine del treno era vuoto e il pavimento era cosparso di cartacce e vecchi biglietti. Lauren si aggrappò saldamente a uno dei pali di sostegno. C'era attaccato un adesivo di una festa di qualche anno prima, rovinato e sbiadito.

Rilassò le spalle e guardò fuori dal piccolo finestrino: i binari si diramavano, come le vene metalliche di un gigantesco automa. Fermati, pensò Lauren, battendo nervosa un piede sul pavimento di metallo e serrando la mandibola. Fermati. Fermati. Fermati.

Chiuse gli occhi, aspettando lo stridio delle ruote e lo sbuffo che confermava l'apertura degli sportelli. Lauren si asciugò la mano sudata sulla gamba dei jeans scuri, lievemente sbiaditi, respirò profondamente, cercando di concentrarsi, di non farsi prendere dal panico.

Il treno si fermò bruscamente e la ragazza si aggrappò forte al palo per non cadere. Fece un ultimo grande sospiro e aprì lo sportello con forza. Quando gli ingranaggi cigolarono rumorosamente, opponendo resistenza, la ragazza imprecò a denti stretti e si creò un varco sufficiente abbastanza per poter passare tra lo stipite e lo sportello. Si divincolò per passare dall'altra parte senza rimanere incastrata con lo zaino. Sentiva ancora la caviglia pulsarle e si resse alla maniglia della porta per scendere. Saltò giù dal treno, atterrando con grazia nonostante il dolore, e si fermò appoggiando il peso sul piede sano. Si sistemò lo zaino di tela su una spalla e chiuse gli occhi.

Sentiva il brusio annoiato dei passeggeri che sostavano sulla banchina, appena scesi dal treno o in attesa del proprio.

Un vento lieve le sollevava i capelli dalle spalle, accarezzandole il viso. Lauren si concentrò, sentendo oltre il sibilo dolce del vento o le parole mormorate delle persone... e poi eccoli. All'inizio era solo un rumore accennato poi, piano piano, sempre più forte, fino a sovrastare gli altri suoni. Alle orecchie della ragazza arrivarono i rumori di centinaia di cuori che battevano. Ognuno di essi aveva la propria voce, diversa dalle altre. Lauren conosceva il ritmo del cuore di Steve e doveva sapere che era lì vicino. Doveva sapere che era vivo. Attese, percependo la gente scesa dal treno passarle accanto senza prestarle attenzione, ma non sentì niente, del suo cuore nemmeno l'ombra, né, del resto, il suono.

Con uno sbuffo di frustrazione Lauren riaprì gli occhi.

Gli ultimi pendolari scesi dal suo stesso treno stavano sparendo oltre le prime file di gradini dei tunnel che portavano fuori dalla stazione. Era sola sulla banchina deserta. Il treno ripartì veloce, accanto a lei, facendo tremare il terreno sotto i suoi piedi, sollevando alcuni biglietti usati e qualche altro pezzo di carta che svolazzò nell'aria finché l'ultimo vagone non fu ormai lontano. Un silenzio opprimente regnava ora sulla stazione, interrotto solamente dalla campanella che annunciava l'arrivo di un altro treno.

Lauren si concentrò, togliendo dalla propria mente il rumore della campana. I binari uno e due la precedevano e non c'era anima viva, normale alle cinque di mattina. Il suo battito non c'era, ma Lauren sapeva che non doveva essere molto lontano. Sentì improvvisamente la necessità di trovarsi lontano da lì, sotto gli occhi vigili delle telecamere. Doveva stare da sola, senza nessuno che la disturbasse. Lasciò vagare lo sguardo, facendo un giro su se stessa, finché non vide, così lontana da sembrare quasi invisibile, avvolta nella foschia, una casetta di mattoni, diroccata e pericolante, oltre un campo abbandonato. Strinse la spalla dello zaino e camminò fino al bordo della banchina. Dall'altra parte, oltre i binari, un cartello metallico con scritto "vietato attraversare" rifletteva la luce di un lampione sparuto dalla lampadina sfarfallante. Lauren si morse il labbro e guardò verso la cabina del capostazione. L'uomo, allampanato, sulla cinquantina, i capelli leggermente brizzolati sulle tempie, era seduto su una sedia girevole e batteva ritmicamente la punta di una penna a sfera contro il ripiano graffiato e consumato della scrivania. Sembrava sul punto di sbattere la fronte contro il tavolo per la noia. Proprio mentre Lauren pregava perché non la notasse, lui alzò lo sguardo e lo puntò sulla ragazza, squadrandola. Il capostazione si rizzò in piedi, una luce d'interesse negli occhi, come se non aspettasse altro che l'occasione per uscire da quella specie di sgabuzzino. Lauren si voltò e fischiò forte.

Il telefono all'interno della cabina suonò forte e l'uomo si bloccò, alzando gli occhi al cielo, con evidente frustrazione. Girò sui tacchi, le spalle incurvate di nuovo dalla noia, e si risedette sulla propria sedia, rispondendo al telefono sfoggiando un sorriso tirato.

Lauren tirò un sospiro di sollievo, controllò che non arrivassero treni e saltò giù dal marciapiede. I sassi tra i binari scricchiolarono e sfrigolarono sotto le sue scarpette da ginnastica come fossero carboni ardenti, ma non lo notò. Arrivò svelta dall'altra parte, sperando di non essere stata notata e si avvicinò alla rete metallica che divideva la ferrovia da chilometri e chilometri di campi incolti.

Costeggiò la rete fino a un buco, in basso, dove qualche animale aveva rotto le maglie metalliche e ci s'infilò. Il campo dall'altra parte era nel più totale stato di abbandono: la terra era dura e sconnessa e le erbacce sfioravano le spalle della ragazza mentre ci camminava in mezzo. Ora, seppur ancora lontana, Lauren riusciva a vedere meglio la casetta, il tetto mezzo crollato, le porte di legno marcio appese storte ai cardini e le finestre sprangate o con i vetri rotti. Camminò svelta e arrivò veloce davanti alla casa, rischiando di cadere diverse volte. Il piccolo edificio era di pietra, fatta da pesanti lastroni grigi, strangolati dall'edera e da un glicine sfiorito da poco. Il legno della porta era vecchio e tarlato, pieno di spaccature e graffi. Lauren cercò di aprirla. Era chiusa. Imprecò tra i denti e alzò lo sguardo: c'era una finestra, poco più in alto, senza vetro, aperta. Appoggiò cauta un piede al tronco centrale del glicine e ne provò la resistenza. Quando fu sicura che il legno avrebbe retto, cominciò ad arrampicarsi. A ogni movimento la caviglia le urlava di smettere, ma la ragazza non ci fece caso, strinse i denti. Dopo un paio di minuti era arrivata circa all'altezza del davanzale di pietra e ci si aggrappò. Sentiva piccole gocce di sudore rotolarle lungo le tempie, la nuca, la schiena. Con un leggero gemito di dolore, rotolò dentro la stanza e si concesse di respirare. Rimase stesa a terra, recuperando fiato, poi, lentamente, si mise a sedere, guardandosi intorno. La casa era straordinariamente pulita, a parte forse per i centimetri di polvere e i mattoni rotti che coprivano il pavimento. Con un rapido gesto della mano ripulì un piccolo spazio al centro della stanza. Fece cadere lo zaino e si sedette a terra a gambe incrociate. Il pavimento scricchiolò e gemette, come sul punto di crollare.

Lauren chiuse gli occhi e cercò di ricordare il messaggio del ragazzo. Steve le aveva detto che dovevano incontrarsi, il più presto possibile. Quello era il posto giusto. Nessuno avrebbe capito il loro nascondiglio. Non li avrebbero scoperti. Lauren doveva continuare a ripeterselo per convincersene. Se l'avessero scoperta, chi poteva sapere cosa sarebbe successo. Nascose il lieve tremito delle mani stringendole a pugno, sospirò e pensò ad altro.

L'unica cosa di cui era certa era che l'avrebbe aspettato. Avrebbe aspettato Steve.

IL QUINTO INGRANAGGIODove le storie prendono vita. Scoprilo ora