LA LIBERTÀ DI UN GUERRIERO - parte 1

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Ciclo 7 - Quinta inondazione del Tetri

La folla inneggiava il suo nome come ossessionata, dal più ricco al più povero erano venuti a vederlo combattere, lui l'umile uomo, l'umano che aveva sconfitto centinaia di nemici: forse l'unico vero campione da qualche centinaio di anni a questa parte.
Come una marea impazzita di voci, con un rumore assordante e cacofonico che rintronava le orecchie, la gente in una babele d'idiomi ed accenti diversi gridava il suo nome da battaglia.
Garula.
Garula.
Garula.
Il nome della sua ascia era divenuto anche il suo; ma qualcuno che ricordava ancora i suoi inizi, quando giovane aveva cominciato a combattere nell'Arena, quando, ancora inesperto, aveva vinto i primi combattimenti e la sua ascia non era altro che un'arma e non il suo simbolo, urlava, quasi perdendosi tra la forza delle altre voci, il suo nome umano. Un Nome che in quel posto suonava quasi sinistro e nelle loro bocche acquistava strani toni e cadenze straniere.
Galìza.
Galìza.
Galìza.
L'uomo a cui tutto quel frastuono era indirizzato sedeva, concentrato, come in meditazione, sulla pietra grigia prima del condotto che portava nell'Arena, aspettando il momento in cui la folla si acquietasse ed attendesse impaziente la sua discesa in campo, come sempre dopo il suo avversario. Con una mano manteneva in equilibrio lo scudo poggiato a terra, che nella parte superiore toccava le sue ginocchia tozze, l'altra mano accarezzava Garula appesa alla cintola: pensava.
Ponderava le azioni che avrebbe dovuto compiere di sopra. Rimuginava sulla sua fortuna e sfortuna. Fortuna perché stava per ridiventare un uomo libero, mancavano solo poche vite alla fine di quello strazio, sfortuna perché centinaia di esistenze erano finite sul filo affilato della sua lama di schiavo, coscritto obbligato a combattere per la sua vita, per la sua sopravvivenza.
Un uomo può divenire un essere spietato pur di sopravvivere, gretto e duro, privo quasi di qualsiasi morale e rimorso: quando si arriva a tali bassezze, una persona era costretta a fare di tutto pur di tenersi in vita e lui non faceva di certo eccezione.
Sebbene non si ritenesse insensibile al dolore altrui, riteneva la sua vita al di sopra di quella di chiunque gli si trovasse di fronte in combattimento, non per una crudeltà insita nel suo animo, semplicemente perché nell'Arena poteva uscire solo uno degli sfidanti sulle sue gambe, l'altro veniva trascinato per i piedi nella polvere, morto: e lui non voleva essere quella persona distesa; in realtà la morte non era il suo terrore e nemmeno la sua paura più grande: se avesse potuto morire con la sua ascia in mano sicuramente lo avrebbe fatto, piuttosto che vivere prigioniero; ma non era lui a decidere, lasciava semplicemente che le cose accadessero. La libertà poi era un miraggio fin troppo allettante.

Quello sarebbe stato il suo novecentonovantottesimo combattimento, tre vite, tre insignificanti esseri da trucidare e sarebbe stato libero di decidere del suo destino, libero di scegliere la sua strada, libero di decidere se combattere o morire, libero di uccidere o salvare.
Le voci si spensero ed un silenzio irreale scese nell'Arena, non si sentiva nemmeno il vento, era arrivato il suo momento; lentamente si incamminò verso il condotto che lo avrebbe portato davanti agli spettatori, di fronte al suo avversario, forse un altro uomo come lui, sicuramente un osso duro, le scommesse correvano folli sugli scontri; ciò che lo aspettava era un compito arduo, uccidere non è mai naturale, ogni gladiatore aveva il suo rispetto, qualunque fosse la sua razza; chiunque condividesse quel suo destino infame era da compatire e commiserare, a volte anche da ammirare, mai da odiare; sul terreno di combattimento non esisteva la pietà però, chiunque si fosse trovato davanti, anche un amico, se di amicizia si può parlare tra due esseri in quel luogo di bestie, sarebbe morto e senza nessuna esitazione.
I suoi piedi calpestarono la sabbia nell'ovale che era il palcoscenico di quello spettacolo macabro, quel teatro della morte; un'orma e poi un'altra lasciarono il loro segno su quel luogo tetro, illuminato da fumose torce poste tutt'intorno ad intervalli regolari; la vista dal di fuori era mozzafiato, due piloni di alabastro nero, in pieno contrasto con il bianco e l'ocra che li circondavano, si ergevano al centro tra le due entrate, ognuno su di un fuoco dell'ellisse, in modo che gli arcieri ed i maghi, non avendo una visuale perfetta, non colpissero i combattenti del corpo a corpo da lontano, appena entrati: tutto per rendere lo spettacolo più interessante, violento, sanguinoso, più seducente ed attraente per quelle menti malate che li guardavano dagli spalti in marmo; dal basso la visuale ti fermava il respiro, gelava il sangue, sembrava come di essere scesi nell'inferno a disputarsi la vita con i morti per poter ritornare al mondo dei vivi, ma chi entrava in quell'edificio da combattente non tornava mai tra i vivi: tornava tra i morti, coloro che un giorno c'erano e l'altro non erano più, coloro che giocavano con la propria vita e quella degli altri senza un motivo, ma solo per decisione altrui, divertimento di qualcun altro, distrazione per le masse, attrazione dei ricchi, orgoglio o vergogna per i nobili che possedevano quel combattente provetto, quel mostro impressionante, o quello sfortunato che era morto senza onore. Quello era il luogo dove le persone abiette si arricchivano, dove gli schiavisti facevano i loro soldi sporchi ed intrisi di sangue, il luogo in cui non esistevano leggi ma solo vivere o morire; "Mors tua vita mea", era scritto sopra i cancelli delle due entrate, parole di una lingua morta di cui il significato era perduto nel tempo e di cui lui si era sempre chiesto il senso.

Appena dentro il rombo delle voci lo avvolse di nuovo, il cancello alle sue spalle si richiudeva per non permettergli di fuggire, lo stesso sicuramente stava facendo il suo gemello nel punto esattamente opposto, quello era il segno sicuro che quello che era ora il suo nemico era dentro, ancora al suo posto come lui: come ordinavano le regole; una volta che il cancello fosse stato del tutto chiuso, si sarebbero potuti muovere, di solito il combattente inesperto appena il cancello si fosse chiuso alle sue spalle correva a prendere una posizione migliore. Il problema con questo piano era che non potevi mai sapere chi tu avessi di fronte, se un mago, un arciere o qualcuno che basasse la sua sopravvivenza sull'ascia o la spada: se il tuo avversario era di quest'ultimo tipo avevi davvero guadagnato un grande vantaggio, se così non fosse stato, semplicemente eri morto! Un arciere ti inchiodava appena ti avvicinavi, un mago ti inceneriva prima ancora che capissi cosa fosse successo. Lui era sopravvissuto perché era sempre stato attento a queste piccolezze, oggi quel piccolo dettaglio del non muoversi sarebbe stato il suo alleato; l'Arena era il suo elemento naturale, conosceva l'altezza degli spalti, dei piloni, la distanza da cancello a cancello le varie bave di vento che vi si potevano incanalare: sapeva ogni cosa c'era da sapere, perché ognuna gli era quasi costata la vita. Puntò tutto sull'immobilità del suo avversario!
Il cancello si richiuse con un sonoro clang. Gli spalti ammutolirono: Galìza senza muoversi caricò l'ascia sopra la testa e poi la lanciò oltre il primo pilone; Garula sorvolò anche il secondo, quando già nella sua parabola discendente e poi la perse di vista, questa sfavillò per un attimo e poi non la vide più; l'ascia roteava sull'asse che si trovava appena sotto le lame, ad una velocità spaventosa, gli spettatori la guardarono affascinati sorvolare l'Arena, alcuni la additavano addirittura ai vicini mentre la lama si conficcava al centro della testa dell'avversario del Campione: l'ascia attraversò il metallo, spaccò il cranio, tagliò il cervello e poi lo scaraventò a terra, nella polvere, senza un gemito, senza nemmeno che si rendesse conto di quel che fosse successo. Il combattimento era finito e la folla rimase ammutolita.

Poi iniziarono le proteste, le urla di rabbia, di dolore per la perdita di molti soldi, di disperazione della gente finita sul lastrico; le persone sbraitavano il loro dissenso, la loro ira per lo spettacolo pagato e che non avevano potuto vedere, nessuno ammirò il gesto superbo ed inspiegabile che Galìza aveva compiuto: si era inimicato tutti e di solito chi la gente odia nell'Arena poi muore!

"Perché l'hai fatto?"
"Non sono affari tuoi!"
"Hai ragione, se vuoi farti ammazzare come un cane solo per dimostrare quanto sei forte: fai pure!"
Un macigno a forma di pugno andò a conficcarsi, con forza, al centro dello stomaco di Varg che si piegò in due per il dolore e poggiò un ginocchio a terra per non cadere.
"Specie di troll troppo cresciuto ed ancora più stupido! Quando capirai come funzionano le cose qui dentro sarà fin troppo tardi: ti ritroverai già sotto tre metri di terra!"
"Cough, Cough, c-ci arriverai prima tu i-imbecille!"
Un altro pugno più forte del primo colpì il gigante ad uno zigomo, mandandolo lungo disteso sul pavimento.
"Vatti ad allenare davanti allo specchio, non sei nemmeno in grado di rimanere in piedi dopo un pugno!"
"No..."
"Ho detto vai!"

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