IL MONASTERO DEL SOLE - parte 4

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Il chierico scese lungo il declivio che s'abbassava dolce verso il fondovalle.
Sterpi, piccoli massi e nuda roccia vennero lasciati alle spalle, mentre i loro simili gli andavano come incontro nel suo incedere.
Un ruggito feroce lo fece voltare.
La terra era vuota, il cielo era sgombro.
Non c'era niente che gli occhi potessero mostrare al cervello.
Eynur continuò la camminata verso il canalone in fondo alla collina.
Seduto su d'una roccia, con le mani in grembo che s'attorcigliavano e si martoriavano, c'era Ais, con gli occhi rossi come due peperoncini maturi e sgargianti, ma che il suo maestro non poteva ancora vedere.
Il chierico si accoccolò sui talloni accanto al masso e poi si distese a terra a guardare il cielo.
Attendendo.
Lontano echeggiò ancora l'urlo disumano d'una fiera dai polmoni giganteschi, che entrambi gli uomini finsero di non sentire.
E Eynur attese, e attese, attese quanto umanamente è ragionevole attendere in quei casi, attese fino ad aver sete, e poi fame e poi sonno, e poi ancora sete.
Attese in silenzio che il suo pupillo parlasse.
Le allodole tornarono ai nidi.
Un branco di capre di montagna dalla peluria sgargiante gli corse davanti.
Un leopardo nebuloso gli passò accanto di soppiatto.
Gli steli d'erba crepitavano al vento come un pianoforte.
I rami secchi dei cespugli salmodiavano come violini stonati, eppur rilassanti.
Grilli vespriani e cicale nimoe cantavano e s'alternavano, le loro melodie mosse a caso in mille direzioni dalle brezze che sferzavano la sterpaglia, come un tappeto bicromatico, chiazzato delle sfumature del verde e del marrone.
Ma Randallt non si muoveva.
Torcevano se stesse le sue mani e rimaneva in silenzio.
Eynur non parlava. Guardava il cielo muto, osservava le stelle e attendeva.
Un ruggito scacciò ogni altro suono dal canalone. Confuse strida di animali che si rintanavano animarono per qualche secondo l'erba cullata dal vento.
Un gigantesco orso delle nevi, che avrebbe potuto guardare negli occhi un gigante dei ghiacci, se si fosse alzato su due zampe, caracollò di fronte ai due uomini ringhiando.
Bava e saliva sputarono fuori dalle fauci, tra le zanne, tra le labbra vibranti. L'animale li guardò con l'occhio azzurro e quello giallo, indisponente, e poi si incamminò verso i boschi, innervosito e imbronciato: come se avvilito di non essere stato salutato.
Un altro ruggito s'innalzò dalle colline e poi tutto tacque nuovamente.
Ais era fermo se non per le mani frenetiche, da cui ormai gocciolavano piccole stille di sangue.
Eynur si posizionò comodo, le mani intrecciate come cuscino sotto la nuca dai folti capelli; un ginocchio a far da altare ad una gamba.
La notte arrivò repentina e fuggì veloce.
Il giorno tornò fulgido dopo l'alba, fino ad esser di nuovo a picco sopra le loro teste.
Il chierico non dormiva, gli occhi rossi.
Il discepolo piangeva silenzioso e non parlava, finalmente le mani ferme.
Un ruggito poderoso sbucò da dietro le nubi, ali di pipistrello si intagliarono, nere e rosse, nel bagliore celureo e asfissiante del mezzogiorno e poi continuarono verso sud.
Quelle che sembrarono le ali dei draghi dei tempi andati, dei draghi estinti, non erano altro che ali di viverna. Cavalcature da corriere, tenute a freno da gnomi loro cavalieri. Archeozoologia in movimento: due ali, due zampe posteriori poderose, per raspare terreni prima di spiccare il balzo del volo, coda appuntita come una lancia e velenosa come la belladonna, e niente fuoco.
Minuscole apparizioni in confronto ai loro cugini andati. Per alcune razze addirittura una leccornia di cui cibarsi avidi.
Ais non spostò nemmeno gli occhi, come non aveva fatto per niente e nessuno fino a quel momento. Ma Eynur ne aveva abbastanza.
Era arrivato il momento di muoversi.
I presagi indicavano un corso in cui incunearsi, ora adesso subito, oppure morire.
Il chierico si alzò distrattamente in piedi, si lustrò pantaloni e natiche, strusciò via il terriccio sabbioso dai gomiti. Pulì le mani sfregandosele tra loro alla bell'e meglio e poi le passo tra i capelli scrollando a terra sabbia e fili d'erba. Era ora di muoversi.
Con molta cautela si posizionò di fronte al suo discepolo, che non diede segno di notarlo, si sedette sui talloni e cominciò a guardarlo di sottecchi, come cercando di sondare un pensiero ramingo. Poi senza preavviso la sua mano si mosse fulminea e uno schiaffo colpì il viso diafano di Randallt, che spalancò gli occhi malamente. Furioso. Oltraggiato.
"Ma che diamine..."
"Questo dovrei dirlo io, omuncolo! Ma che diamine stai facendo..."
"Io attendo."
"Invano... non verrà Ais. Non arriverà mai.
Mai più purtroppo."
"Se..."
"Non ci sono se povero ragazzo.
Non ci sono se...
Non verrà e non solo perché è morta..."
Randallt lo guardò sbalordito, nauseato, indignato che l'uomo osasse pronunciare una verità indicibile.
Il suo maestro continuò solenne, una nota di preoccupazione e dolcezza nella voce, "Non verrà non solo perché è morta ragazzo. Qui non potrebbe venire comunque.
Ti stai chiudendo.
Siamo nella tua mente.
Non te ne accorgi?
Sei rinchiuso nel tuo bozzolo e non ti muovi.
Siamo nel tuo cervello. E tu sei bloccato qui dentro a disperarti.
Lei non potrebbe venire qui, né viva, né morta. E se venisse sarebbe solo la tua mente!", finì Eynur strappandolo a secoli di filosofia cartesiana e psicologia jungiana spiccia da quattro soldi.
"Ma se venisse..."
"La tua mente diamine ragazzo! Cosa vuoi fare, masturbarti il cervello fino a spellarti la corteccia cerebrale, solo per credere che quei baci siano i suoi?
Sarebbero i tuoi!"
"Maestro Io...", cominciò stentato Ais.
"Svegliati Adesso: non parlo con i nottambuli!", e il chierico lo oltrepassò risalendo la collina, oltrepassando sterpaglie e rocce, inerpicandosi lungo il declivio, muto sordo e cieco alla bellezza del panorama, al cielo vuoto, alla pianura sgombra.

Eynur riaprì gli occhi alla cella, due pupille azzurre nella penombra della stanza disadorna e maleodorante di sangue, sudore ed escrementi mal ripuliti, o vecchi, o forse di stantio e basta.
Randallt rimaneva nel sogno, i globi oculari si muovevano frenetici sotto le palpebre oppresse.
Il suo maestro lo osservava dall'alto, sorvegliando i suoi movimenti.
Prese il secchio-latrina che giaceva umido e marcio in un angolo e rovesciò in un getto addosso al bell'addormentato, il poco contenuto che v'era ancora.
I vapori non fecero in tempo a nauseare il dormiente, o l'attaccante, che la malsana fredda umidità, e mollezza, fecero il loro lavoro. Ais si alzò mimando in tutto e per tutto un pulcino bagnato, invidiando anche un pulcino bagnato a dire il vero, e con gli occhi bianchi fuori dalle orbite e un pugno gocciolante, (gocciolante cosa è meglio non indagare), tentò di colpire il suo maestro al volto. Piccole goccioline nauseanti e maleodoranti si sparsero intorno al suo braccio, sfavillando via dal suo corpo con riverberi da fanghiglia, e solo per puro fortuito, fortunoso, fortunato caso, non colpirono Eynur che si smarcava dal suo velleitario attacco. Ais scivolò,  e il suo maestro lo lasciò cadere e annaspare nel suo lerciume.
"Ora spogliati, lascia qui quello schifo che porti addosso e lavati!
T'aspetto fuori.", l'apostrofò il chierico con un tono che non lasciava repliche, "È ora di diventare adulti e io ho da sistemare una faccenda prima..."
"Tu...", cominciò rabbioso l'uomo, chino su  se stesso.
Ma Eynur lo prevenne, la voce costernata, il cipiglio dolce, "Non fraintendermi, non è che non capisca il tuo dolore.
Anzi.
Ma il mondo è dei vivi, non dei morti.
Lei è morta salvando tutti, salvando te...
Che significato dai alla vita che le ti ha donato, se la getti così!"
"Se avessi potuto scegliere, se avessi potuto combattere anche io...", ricominciò furente, il viso puntato a terra, ma Eynur già ciondolava la testa da una parte all'altra costernato, prevenendo le sue parole, "Forse saresti morto, o forse no, o forse le parti sarebbero invertite, ma il passato è passato: non si cambia... allora non eri pronto per combattere.
Adesso sì."
"Adesso No!
Che senso ha ora combattere, per chi combatterei?
Come potrei farlo in queste condizioni!"
"Ora puoi combattere perché sai cosa si perde. Prima la battaglia era solo un mulinare di spade per te, eri un soldato: un combattente per altri, di poco superiore ad un mercenario.
Finalmente sarai un guerriero e i guerrieri combattono per ideali, e gli uomini che possono viverli, non per gli uomini e basta: vivono e combattono per un sogno."
"Quindi per combattere, come vuoi tu, l'avrei dovuta perdere comunque, ma che senso ha?"
"No: potevi arrivarci anche da solo a queste conclusioni... per questo dovevi meditare, per questo dovevi capire, c'era un'altra via. Mi spiace che ci sia voluto un altro sentiero; è stata una sventura..."
"Quindi è per questo che sei andato via..."
"No!", tuonò Eynur, "C'erano cose da fare che esulano la tua attuale comprensione.", la sua ombra come si ingrossò dall'ira che provava, la penombra si intensificò nella cella, i muri divennero scuri, Randallt si rannicchiò sgomento, non vedendo, ma solo sentendo il potere riverberare nell'aria come energia elettrostatica, "Davvero mi credi così meschino?! Come osi...", poi la sua rabbia scoppiò via come una bolla: "Hai ragione a pensarlo ma non è andata così.
Spogliati e lavati.
Io ho delle faccende da risolvere.
T'aspetto fuori.
Ho bisogno di un discepolo, di un guerriero, non d'un soldato perduto, d'un veterano piangente senza guerre alle spalle. S'appresta una tempesta e tu devi esser pronto."
Randallt si rialzò fiero, come una belva ferita, ma non vinta, puntò il viso verso la voce che gli parlava, spalancò gli occhi al buio e due sclere bianche come l'avorio si aprirono al mondo da sotto le palpebre. Due pupille eburnee e brillanti.
"Anche se m'avessi convinto: ormai è tardi.
Sono cieco Maestro!"

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