IL MOLO - parte 1

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Ciclo 7 - Quinta inondazione del Tetri

Le stelle brillavano sinistre sopra la terra, inarrivabili nella loro perfezione.
Lo spettacolo era suggestivo, quasi poetico, sicuramente una mente emotiva si sarebbe dilungata nel descriverlo in svariati modi per poterne carpire l'essenza.
A Varg la visione di tutto quello splendore era preclusa e non solo per il fatto che si trovasse nella stiva, incatenato dentro la sua gabbia, ma anche perché se si fosse trovato sul ponte, non lo avrebbe potuto vedere in alcun caso, la "Brigante" infatti, viaggiava sonnacchiosa lungo le correnti del Tetri che scorreva maestoso sottoterra.
A dir la verità, volendo essere sinceri, quello spettacolo al barbaro non sarebbe interessato nemmeno se si fosse trovato i svariati chilometri in superficie che lo separavano dal chiaro di luna e dalle stelle. Infatti il gigante era una mente più selvaggia, legata alla natura e alle sue forme in modo diverso dalla contemplazione: più che altro all'azione, al pragmatismo, alla convivenza anzi alla sopravvivenza, cioè alla presenza stessa in essa e non davanti ad essa.
Inoltre in quel momento le stelle e la luna erano l'ultima cosa a cui stesse pensando.
Negli occhi rivedeva ancora il momento in cui la punta di Garula s'era conficcata nel petto di Galìza, recidendogli la vita.
Quella visione aveva come sortito l'effetto di farlo regredire: era tornato più selvaggio, scostante, intrattabile, irascibile; qualità queste che aveva sempre avuto, ma che ora si inasprivano per non farlo impazzire. I sentimenti si diradavano, rimaneva solo il vivere, il combattere, il fuoco dei polmoni che bruciano mentre aggredisci il tuo avversario. Bramava il sangue che avrebbe sentito sul volto, che vomitava da una ferita che aveva appena inflitto, che caldo colava via con la vita.
L'angoscia e l'ansia erano alimentate dalla nudità che sentiva ogni volta che tentava di rigirarsi l'ascia oramai inesistente che ancora sentiva viva tra i palmi. Questa era stata requisita, come prova, appena finito il combattimento e adesso ne desiderava il peso rassicurante tra le immense mani: il poterne accarezzare ancora una volta il filo tra le dita prima di battersi per distrarsi.
Senza quei piccoli espedienti che aveva maturato in anni nell'Arena si sentiva stanco e la sua mente vagava, saltava, da una immagine all'altra: Galìza nella polvere che sputa sangue dalla bocca, Boreltìs che annaspa boccheggiando appena prima di morire, di esalare un altro, ultimo, respiro; se stesso in quel quadro inverosimile che era stato il millesimo combattimento del suo mentore e il suo ruolo nella sua morte.
L'unica cosa che lo consolava era il fatto che presto vi sarebbe stato un altro surrogato, clone mal riuscito dell'Arena in cui avrebbe combattuto: un nuovo avversario su cui si sarebbe abbattuto, uno sconosciuto su cui sfogare la rabbia che gli montava dentro, che cresceva e non scemava, e lo sfibrava.
Uno spasimo di collera tese i suoi muscoli contratti dalle catene che lo imprigionavano: polsi e collo stretti insieme in due corde di metallo di michelio, cinghie di malmasio strette alla vita che trattenevano le caviglie.
Avrebbe distrutto quelle costrizioni con ogni oncia di forza che gli scorreva nelle vene, ma quelle catene che lo inchiodavano nella sua prigionia, dentro quella gabbia erano troppo anche per lui.
Quella forzata impotenza lo snervava, lo innervosiva, gli prudeva sotto i muscoli e tra le dita fino alla pazzia, cominciava già a sentire le voci: il volto di Gàliza gli parlava in una lingua incomprensibile, tra lande innevate, mentre il vento gelido sferzava il paesaggio circostante mischiando il suo ululio con quello dei lupi.
La nave attraccò con un rumore sordo alla banchina.
Presto lo sbarco sarebbe cominciato e lui si sarebbe trovato all'esterno, avrebbe assaporato di nuovo l'aria del fiume, non quella pesante e nauseabonda della stiva.

La "Brigante" era una nave di schiavi, e per quello scopo era stata costruita, stive adattate a varie modalità di trasporto la facevano una nave di grande valore, infatti vi si poteva incatenare ai ceppi, come trasportare in gabbia la merce e boccaporti spaziosi e ampi per le pulizie erano posizionati in punti strategici. Tutto l'occorrente per una traversata senza intoppi insomma.
Questo gioiellino però non era solo pratico, e nemmeno inoffensivo... possedeva infatti dodici cannoni su entrambi i lati, un rostro robusto e fuoco magico con cui arrostire i nemici: in pratica la "Brigante" in mare anche se non velocissima era un avversario formidabile per chiunque avesse avuto l'incauta idea di ingaggiare battaglia per rubarle il carico; se poi consideriamo pure che i suoi uomini erano tra i migliori, allora la "Brigante", era meglio abbordarla nell'assoluta immobilità!
Il capitano Marlo aveva guidato il suo infausto vascello fino a Scarlis.
'Spedizione dura e pericolosa questo viaggio' pensò Marlo, 'Un viaggio schifoso e pericoloso, ma non mal pagato!', quella traversata gli fruttava infatti parecchi soldi ed era solo un inconveniente che avesse dovuto assoldare più mercenari, da quando il Tempio aveva deciso di ostacolare la tratta: si sentiva comunque rassicurato che la "Gilda dei Mercanti", o i Mercanti come venivano nominati a Scarlis per brevità, gli avesse mandato alcuni dei suoi uomini per salvaguardare il carico e per controllarlo.
In anni di navigazione ne aveva viste di tutti i colori, spesso con esiti non molto felici. Ultimamente poi era ancora peggio: suoi "colleghi" avevano perso tutto se non proprio la vita a causa del Tempio e anche lui aveva subito la sua parte di perdite: una delle navi della sua minuscola flotta era stata affondata dall'azione congiunta di un piccolo manipolo di attaccanti del Tempio, a nulla erano serviti i soldati che aveva assoldato per proteggerla.
Erano mesi che non accettava un carico per cui si sarebbe dovuto fermare al porto di Scarlis con la sua ammiraglia, preferiva altre tratte per lei, più sicure, anche se meno lucrose; aspettava l'offerta giusta per rischiarla ed il prezzo che gli avevano offerto per trasportare quel carico  era di un valore a cui non aveva potuto rinunciare. Per l'abbisogna aveva preso ancora più guardie del solito, le aveva raccomandate l'Arena stessa garantendo per le loro abilità; le promesse poi di aiuti una volta attraccati e si scaricava, (il momento più pericoloso di tutto il viaggio),  avevano infine sopito ogni sua obiezione.
Gli uomini dei Mercanti gli si presentarono appena la passerella venne calata a terra e si poté salire a bordo.
Li aveva incontrati mentre controllava il sartiame di babordo, non gli avevano fatto una grande impressione: aveva pezzi più appariscenti e forse più forti nelle gabbie, ma il solo fatto che i Mercanti li mandassero era indice di efficienza e sicurezza.
La gru portò le varie gabbie lentamente sul ponte, allineandole in modo da renderne più semplice poi lo sbarco, gli scaricatori già attendevano d'abbasso.
Non fu un vero e proprio choc quando cominciò l'attacco, se l'aspettava l'avrebbe sconcertato il contrario, erano gli uomini della "Gilda dei Mercanti" a preoccuparlo: non credeva ai suoi occhi, 'Degli sprovveduti, mi hanno mandato dei maledetti pivelli!, si trovavano tutti nelle posizioni sbagliate...', gli veniva quasi da piangere, 'Saranno anche uomini dei Mercanti ma non sanno un'acca di come si difende una nave al porto!'
Comunque un problema che lo aveva frustrato per molto si era risolto da solo: il Tempio era arrivato.
Un'ampolla di fuoco alchemico si andò ad infrangere nel mezzo del ponte, dando fuoco a vele e corde, una sfera di fuoco esplose sull'albero maestro e questo cadde sulla gabbia che gli stava a sinistra, distruggendola, forse uccidendo il suo occupante, il legno cadde poi in acqua, continuando a consumarsi per il fuoco magico.
I bastardi avevano anche un mago dalla loro, a quel punto avrebbe quasi riconsiderato l'offerta che l'Arena gli aveva proposto, avrebbe dovuto chiedere molto di più, il gioco forse non valeva la candela: lui aveva molti assi nelle sue maniche però.
Il caos ormai imperversava sul ponte; dalla gabbia distrutta di cui credeva morto l'occupante emerse una specie di gigante. L'uomo teneva a mo' di clava un pezzo ritorto della sbarra del suo scomodo alloggiamento, catene spesse come un pugno gli pendevano dai polsi, dalla vita e dal collo, dandogli un aspetto più spettrale che ferino.
Un acido non meglio identificato andò a ricadere in maniera simile ad una piccola pioggia fine e circoscritta sul ponte, corrodendolo e iniziando a sfaldarlo, alcune gocce finirono su altre gabbie, altri prigionieri si liberarono e cominciarono ad uscirne.
Minotauri, manticore e molti altri esseri di svariate lande, come molti animali, si aggiravano sul ponte famelici o vendicativi.
La situazione peggiorava.
Poi cominciò lo scontro vero e proprio.

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