IL MOLO - parte 2

22 2 2
                                    

Questi erano i pensieri che occupavano la concentrazione del capitano, quando ad un tratto trovò quel che cercava: addossati ad un muro e all'angolo contiguo ad esso c'erano casse, barili, e del cordame abbandonato che probabilmente un'altra nave aveva scaricato e cambiato.
Era perfetto al suo scopo, da quel punto avrebbe controllato tutto lo scontro e avrebbe anche avuto il tempo per fuggire se lo avessero scoperto gli attaccanti: era eccellente.
S'avvicinò con molta attenzione ad un grosso barile e stava per aprilo quando qualcosa gli punse una gamba: un piccolissimo gridolino gli sfuggì dalla bocca per la sorpresa e la leggera fitta. 

Le braccia muscolose, color ruggine, con una piccola e fine peluria, cedevano sotto la morsa di quelle scure per le scottature da neve, piene di cicatrici per gli scontri e le sevizie subite, grandi come mantici.
Il respiro del bovino si fece più affannoso, pesante, rumoroso, mugghiava sommessamente. Odiava dover ammettere di aver paura che quell'uomo lo uccidesse, non per la morte stessa, ma per il disonore di morire per mano di un essere così inferiore. Con un ultimo guizzo d'energie riportò il suo spadone all'altezza originale: cercava di spingere la lama verso il collo del suo avversario.
Il sangue sgorgava dai palmi dell'uomo, lì dove il filo penetrava le carni, scendeva poi sulle mani rendendole umide e scivolose: la sua situ e lo spinse oltre il limite: l'anello al naso tintinnava contro l'orecchino sul labbro per le vibrazioni dei suoi muscoli, mentre si sforzava di schiacciare le resistenze dell'umano.
A rilento, un piede alla volta Varg indietreggiò, rinculò verso la balaustra, le corna del taurita che gli sfioravano le braccia segnandogli con piccoli graffi la pelle, dove uno scuro liquido fuoriusciva da piccole ferite, raggrumandosi attorno ad esse e colando poi denso fino ai gomiti, sgocciolando a terra, lasciando una scia a segnare i passi fatti.
Il fuoco cuoceva l'assito e questo riscaldava le gocce facendole sfrigolare, saldandole al sudiciume del ponte.
Il barbaro si innervosì per quella resistenza strenua e inattesa, quasi disperata. Strinse dolorosamente la presa della mano sulla lama e quella che tratteneva le dita pelose di lanuria del taurita mollò la stretta: le dita libere s'infilarono e Var lo tirò a sé con cattiveria; Pasife urlò e mugghì dal dolore: gli sforzi costati tanta forza di volontà i vanificati da un vezzo di cui non si voleva liberare, un capriccio poteva costargli le corna...

Era così attento ai vari scontri: gli occhi viola fissi sui diversi combattimenti, che se non fosse stato per quel leggero rumore  non si sarebbe accorto della figura che l'aveva provocato.
L'uomo camminava verso il magazzino su cui era appollaiato con fare attento, circospetto, come cercando qualcosa: era bagnato dalla testa ai piedi, i capelli appiccicaticci, attaccati al viso per l'acqua che li appesantiva. Il comportamento era sospetto ed il viso gli ricordava qualcosa: una leggera pulsione nel suo cranio gli suggeriva che conosceva quell'uomo, sapeva chi era in qualche parte della sua memoria; una lingua rasposa gli sfiorò la pelle nera e delicata della mano, un muso rosso e con uno sguardo intelligente lo guardò adorante.
Non riusciva proprio a ricordare dove avesse visto quel viso, il drago in miniatura lo guardò con gli occhi scintillanti, e cercava di spingere le immagini, i confusi pensieri animali verso quelli del suo padrone. Dervesh lo guardò pensoso e l'accarezzò dietro la testa, un'immagine, che gli perseguitava le svariate idee, le rincorreva nella sua vorticante mente. Il suo famiglio stava cercando di dirgli qualcosa, finché alla fine non si ricordò dove aveva visto quel brutto viso, sfregiato lungo una guancia, butterato lì dove cresceva una rada barba grigia; il capitano de la "Brigante"  praticamente gli camminava di fronte, ignaro della sua presenza.
Il mago accarezzò Skratch dietro il collo, come ogni volta lo aveva aiutato tantissimo: l'unico essere che considerasse famiglia. Con questi pensieri un po' cupi per la testa cominciò a tessere la ragnatela che avrebbe imprigionato quello sporco schiavista, che cercava di nascondersi proprio sotto di lui.

Marlo si ritrovò senza nemmeno capire come imbavagliato e legato da una sostanza bianca e vischiosa: il panico s'impadronì delle sue membra, il suo corpo cominciò a tremare, il terrore per un'eventuale morte gli attanagliò le viscere, quindi con il coraggio che lo contraddistingueva, il capitano svenne ed evacuò i suoi orefizi inferiori al contempo.

Il mago del Tempio fece levitare il corpo senza sensi che atterrò poi al suo fianco: la sua mossa era stata azzardata, il Cavaliere della Luna aveva ordinato nessun prigioniero, disubbidire equivaleva a guai seri, molto, molto sconsigliabili. Xediac non era mai tenero per ciò che riguardava la disciplina, ma lasciarsi sfuggire una tale fortuna, uccidere una tale miniera d'informazioni sarebbe stato stupido, era suo compito catturare quell'uomo infame. Sperava che quelle argomentazioni sarebbero bastate a salvarlo da un'udienza per insubordinazione, forse tanto valeva uccidere quell'uomo all'istante, ma la sua mente logica non gli permetteva di considerare quell'eventualità.

In una ben coordinata mossa per tentare di salvare carico e nave, nonché gli interessi dei Mercanti e quelli dell'Arena, i mercenari e gli uomini della gilda fecero saltare la passerella per evitare che i prigionieri scappassero ed iniziarono ad incatenarne i più tranquilli e a passare a fil di spada i più recalcitranti. Il maggior numero infatti gli permetteva di impegnare gli attaccanti che continuavano ad avanzare, e contemporaneamente di cercar di riacciuffare tutti gli schiavi che correvano all'impazzata sul ponte in fiamme; il loro "mago", se così si poteva definire un fattucchiere, cercò anche di spegnere l'incendio: ma il mago nemico con quello nemico.
Non credette ai suoi occhi quando una leggera vampa di ghiaccio iniziò a propagarsi dalle sue dita verso i vari fuochi, 'Ho il potere pensò' e una freccia di balestra dietro la nuca lo freddò con quel pensiero rassicurante in testa. Dervesh posò la sua arma a terra, dove erano allineati i quadrelli pronti all'uso, il mago nemico era sistemato: sprecare energie magiche per un tale inetto sarebbe stato un insulto al suo orgoglio

La morte del mago portò lo scompiglio: l'incantatore e secondo di Marlo in comando, era ormai morto e quindi il caos si propagò tra i ranghi per la mancanza di disciplina e la presenza onnipresente del fuoco, che accecava e toglieva il respiro ai combattenti, ostacolandoli e rallentandoli.

Nella follia omicida di quella confusione cieca, si sentiva la mancanza di qualcuno che urlasse gli ordini e dirigesse gli uomini in battaglia e tra i nemici, ma l'unico in grado di rimettere ordine tra i marinai, i mercenari e i Mercanti, che si opponevano ai templari di Lystrrat, era impegnato in un combattimento all'ultimo sangue contro un colosso di quasi sei piedi, che non gli lasciava alcuna possibilità di distrazione, men che meno di poter dirigere i suoi uomini: pena la morte.
Fu così che le redini del gioco vennero prese in mano dall'astuzia, dalla fine tattica e dall'esperienza del Cavaliere della Luna, che con ordini precisi e attenti, riorganizzò i suoi uomini ricompattandoli e incitandoli, poi li divise nuovamente su vari piccoli fronti, così da sfruttare la mancanza di una guida nello schieramento nemico e il vantaggio degli attacchi da lontano di Dervesh, permettendosi anche il lusso di dislocare degli uomini nell'evacuazione dei prigionieri: a salvataggio ultimato avrebbe giocato il suo asso nella manica.

In quel subbuglio s'infilò anche un altro contendente, una dozzina di uomini incappucciati, vestiti completamente di nero, con pugnali alla mano, cominciarono, silenziosi ed invisibili, a seminare la morte indiscriminatamente tra attaccanti e difensori, senza quasi un motivo alcuno.

I MILLE SOGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora