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Ero ancora aggrappata alla colonna tremando, le mani di Kevin premevano su i miei fianchi per reggermi. Era andato via con quella ragazza bellissima, l'aveva presa per il polso, non ci potevo credere.

Sentii gli occhi incominciare a pizzicare e bruciare di dolore e lacrime che chiedevano l'accesso per scorrere libere lungo il mio viso, tirai su con il naso.
Il dolore che comprimeva il petto accelerandone i battiti come presa da palpitazioni.

"Lascia Kevin, ce la faccio" posai la mano su quella di Kevin guardandolo, per fargli capire che andava tutto bene, anche se dentro il dolore lancinante mi ritorceva lo stomaco come in una centrifuga.

"Sicura Cindy?" Chiese fievole osservandomi preoccupato negli occhi arrossati.
Annuì sentendo le sue mani che si staccavano piano da me, lasciandomi da sola con le gambe molli che mi reggevano a stento.
"Vuoi che ti accompagnano a casa?" Domandò Katy avvicinandosi poggiandomi una mano sulla spalla.

"No, sto bene, voi rimanete io vado da sola" li fissai cercando di mascherare il dolore, accennando un sorriso tirato, forse troppo, tanto da farmi male le guance.
"Sei proprio sicura?" Ribadì Katy scrutandomi, mordendosi le unghia delle dita smaltate.
"Ho detto che va bene ok?" Sbottai irritata, fuori di me, portandomi i capelli all'indietro.

Inspirai a lungo, chiudendo gli occhi per poi riaprirli guardando i loro volti.
"Scusate, è stata una serata difficile, ci vediamo" sussurrai provata e dispiaciuta con le parole che uscivano a stento cercando di non cadere in un pianto copioso.

Katy mi abbracciò accarezzandomi i capelli.
"Lo so tesoro, lo so" cercava di cullarmi come se fossi una bambina, accarezzandomi la schiena per rassicurarmi.
Mi staccai annuendo, allontanandomi da quell'inferno.

Mi muovevo a lunghe falcate, passando tra la gente che affollava il salone, voci e risate si mescolavano nella mia testa, passavo inosservata, d'altronde chi ero io? Nessuno ripeteva la mia testa, non sei mai stata nessuno, hai solo un nome e cognome buttato lì sull'anagrafe e su una carta d'identità stropicciata, ma io non sapevo quale fosse davvero la mia identità.

Aprii la porta girevole dell'hotel con il palmo, scendendo in fretta la scalinata.
Una volta allontanata mi voltai verso l'hotel illuminato, ripercorrendo tutta la serata.

Mi fermai come per riprendere fiato, alzando gli occhi al cielo, non vedevo stelle che brillavano, era buio come ero io dentro.

Gli occhi cercavano la macchina di James, e per quanto facesse male sapevo che non c'era, sapevo che era andato via con lei, chi era? Perché l'aveva trascinata fuori? Mille domande si accalcavano ma nessuna risposta.

Mi aggrappai alla corteccia di un albero, togliendomi le scarpe a fatica, avevo i piedi gonfi e doloranti, le presi tra le dita incamminandomi senza mai fermarmi, andavo dove le gambe portavano, il cervello era sconnesso dal corpo, che sembrava non voleva fermarsi. Le Macchine sfrecciavano passandomi vicino alzando una leggera folata che mi accapponava la pelle, mi stringevo il corpo con le braccia.

Immagini di me e James mi passavano davanti agli occhi come un film, noi due al mare, la prima volta che mi aveva fatta sua, forse gli sono sempre appartenuta subito, sin da quando le sue nubi  si posarono su di me, scrutando i miei occhi appannati dalle lacrime, alzando il sopracciglio delineato e perfetto.
Credevo che lo fosse, ma nessuno è perfetto.

Era già l'alba, senza rendermene conto le mie gambe mi portarono dove tutto aveva avuto inizio.
Osservai quella casa, la targa con i loro nomi impressi sopra, ci passai sopra l'indice come la prima volta disegnandone i contorni, questa volta non bruciava, non faceva più male, il dolore assorbito era troppo, niente poteva più ferirmi.

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