1- Prima Parte

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Prima Parte

-Reparto 6-

D'inverno a Kyedi era sempre la stessa storia. Atmosfera spettrale e fredda, alcuni in giro di prima mattina con le buste della spesa in mano, altri a correre al parco aspirando ad un fisico perfetto. Era questo il penoso spettacolo che si presentava davanti a Silvia Wond tutte le mattine mentre si recava a lavoro.
Dopo aver parcheggiato al solito posto osservò allo specchietto della sua auto le borse sotto agli occhi, se le sfiorò e sospirando scese.

Il reparto numero sei aveva il solito odore acre, di disinfettante e aria consumata. La dottoressa Silvia Wond- una donna non molto alta, bionda, che aveva la curiosa abitudine di legare i capelli in qualunque occasione- aveva piú volte riflettuto sul modo di cambiare un po' l'ambiente, ma non era mai arrivata a una conclusione concreta. I suoi colleghi non avevano mai accennato a un particolare fastidio rispetto all'odore facilmente percepibile che aleggiava nei corridoi, e quindi anche lei aveva lasciato da parte la spiacevole questione.

Entrando in ospedale notò il solito traffico di prima mattina; la maggior parte dei suoi colleghi si fingevano indaffarati e carichi di lavoro correndo da una parte all'altra e apparendo stanchi, ma la pantomima finiva di lì a poco e Silvia, ahimè, aveva scoperto i loro trucchetti. Un giorno si era lasciata sfuggire tutto in un momento di rabbia mentre parlava con il suo capo, e quest'ultimo aveva iniziato a guardare in modo sospetto tutti finendo col rimproverare chiunque avesse trovato con le mani in mano. Ma non era solo quello il motivo per cui quando la dottoressa faceva il suo ingresso qualcuno le rivolgeva sorrisi forzati o addirittura non la degnava del saluto, era sopratutto un'invidia generale che portava i suoi colleghi a tale comportamento. Infatti Silvia lavorava da tanti anni nell'ospedale psichiatrico di Kyedi, era la migliore e riusciva in tutto.
Mentre si dirigeva nel suo studio passando accanto ai diversi attori teatrali sentì una voce, era Rose.
«Silvia, Silvia eccoti!»
La dottoressa si voltò, le lanciò uno sguardo ed entrò nel suo studio. Rose la seguí, entrò e socchiuse la porta.
«Accoglienza insolita, qualcosa non va?» domandò Silvia mentre lasciava la borsa sopra la sedia e indossava il camice.
«Sì, c'è un problema. È importante. Spero tu possa aiutarmi»
«Oh, davvero?»
Silvia continuò a sistemare le cartelle nei cassetti, mostrandosi scontrosa con una che era scorbutica tutti i giorni ma si mostrava gentile ed educata solo all'occorrenza. Rose era bassa, aveva un viso rotondo, il naso all'insù che le dava un'aria da saccente, e i capelli rossi, ricci. La si poteva descrivere con due soli aggettivi: negativa, pessimista. Della serie va tutto male, sempre maledettamente male!
Sorrise forzatamente per non lasciar trasparire l'impazienza e i nervi.
«Silvia ti ho detto che è importante» ribadì maltrattando i bottoni del camice.
A quel punto la dottoressa si fermò, scocciata, e si mise a braccia conserte.
«Ti ascolto »
«È arrivata una ragazza, non so quanti ospedali avrà cambiato ma fatto sta che ora è qui» disse indicando il pavimento. D'istinto Silvia guardò in quella direzione.
«Dov'è il problema? Cartella clinica?»
Rose fece un gesto vago con le mani e alzò le spalle.
«Non si sa niente.  Non sappiamo da cosa è affetta. Abbiamo provato ad avvicinarci ma continua ad alludere a cose strane e ci scaccia come la peste. Temo che possa saltarci addosso da un momento all'altro»
La dottoressa si morse il labbro; quella mattina non era in vena di ordini, ma per amor del proprio lavoro avrebbe accettato qualunque cosa. Fece un respiro profondo. L'importante era mantenere il controllo.
«E dunque hai pensato "perché non farla saltare addosso a Silvia!?" e sei venuta a parlarmene...» disse ironicamente allacciandosi i bottoni.
«Io non...» provò a dire Rose, ma venne bloccata con un gesto della mano.
«Reparto e camera»
«Reparto 6, camera 7».

Stava immaginando già il quadro della paziente: donna di mezza età, con gli occhi fissi verso la parete, che non prova alcuna reazione alle parole di nessuno.
Bussò come suo solito e fece un respiro profondo. La camera era silenziosa, fredda, ma sentiva che i muri parlavano, emanavano tristezza. Rannicchiata sopra il letto Laura Jemmin.  Capelli neri pece, lunghi, e una pelle bianca e candida. Sembrava avere all'incirca trent'anni, troppo giovane per essere rinchiusa lì, ma d'altronde la maggior parte dei pazienti, purtroppo, avevano più o meno la medesima età.
Le ricordava quei fantasmi che si vedono nei film horror, soprattutto in quello dove lo spettro era rappresentato da una donna che usciva dalla televisione e appariva in un pozzo. Non ricordava il titolo, ma rammentava che mentre da piccola lo vedeva, sua madre, con aria soddisfatta le diceva: «Bisogna stare attenti a certe cose» alzando l'indice molto in alto.

«Ciao Laura»
Si avvicinò cautamente.
«Ciao Laura» ripetè sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi, «io mi chiamo Silvia, piacere di conoscerti».
La paziente si voltò, gli occhi sgranati. In quel momento capì che quella ragazza, per cause ancora ignote, era diventata un tutt'uno con la paura. Anzi, era la personificazione della paura.
«Posso sedermi?» chiese gentilmente mentre le si sedeva accanto. Laura continuava a seguirla con lo sguardo.
«Ho saputo che sei una nuova arrivata. Sono consapevole che qui le stanze non siano il massimo, ma ci sono alcuni momenti in cui puoi uscire e parlare con altra gente. Basta solo comportarsi bene»
Silenzio.
«Potresti trovare qualche amica»
«Potrebbe essere chiunque» rispose tesa la ragazza con una voce stridula abbassando lo sguardo.
«Ma certo, chiunque tu voglia. Potresti trovarti bene con altre ragazze anche più grandi»
«Potrebbe essere chiunque e potrebbe ucciderermi»
A quel punto la dottoressa capì che non alludeva alle ipotetiche amiche, ma a qualcos'altro, qualcosa che la tormentava.
«Qui nessuno può farti del male, credimi»
«Giura! Giura che non sta qui!»
«Chi dovrebbe esserci?»
Poi la paziente mormorò qualche parola incomprensibile.
«Come dici scusa?» domandò la dottoressa.
«Attenta ai camion...»
«Ai camion?»
«Si!» rispose convinta annuendo.
«Perché?»
Laura si guardò intorno come se stesse per rivelare un segreto che nessuno poteva conoscere, e poi si avvicinò a Silvia.
«Sono dei traditori! Soprattutto quelli bianchi... Devi stare attenta!»
Poi prese la dottoressa per un braccio. Lo strinse forte, troppo forte, affondando le unghie sul camice.
«Non ti fidare nemmeno di loro!» disse guardando la porta e indicandola. Si riferiva ai colleghi di Silvia. «Di nessuno, e soprattutto i camion, attenta ai camion, ai camion bianchi. Sono cattivi stai attenta! Molto attenta ai camion!»

Silvia ritirò il braccio velocemente sapendo di aver commesso un errore, e provò inquietudine: quella serie di parole l'avevano terrorizzata. Forse perché era la prova inconfutabile che la paziente era seriamente pazza, altrimenti non se lo sarebbe spiegato.
«Si, si, starò attenta...» disse e poi accennò un sorriso, al quale Laura rispose puntualmente con un altro.
«Ora devo andare... Però tornerò, non preoccuparti» disse Silvia regalando un altro sorriso alla paziente.

Poi deglutí e se ne andò sospirando. Forse era il caso di bere un goccio d'acqua.

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