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Quella notte aveva sognato sua madre, ma più che di un sogno si trattava di un lontano ricordo; si trovava in cucina, stava bevendo un caffè con lo sguardo fisso verso la finestra che dava sul viale alberato che portava al parco. Ci andava spesso Silvia quando era piccola, quando la sua famiglia era ancora perfetta, unita come nei film. Purtroppo a distanza di poco tempo era cambiato tutto della sua vita, più di quanto una bambina avesse potuto immaginare. Ancora come nei film.

Quando Silvia si era avvicinata, Evelin aveva posato la tazzina da caffè sul tavolo e aveva accennato un piccolo sorriso. Il suo volto era scavato dal dolore e dalle sofferenze nonostante non avesse ancora raggiunto l'età della vecchiaia.
Aveva accarezzato i capelli di Silvia e poi le aveva indicato il cielo.
«Vedi?» le aveva detto, «tuo padre ora è lassù e ci sta guardando. Ma noi» aveva continuato «siamo forti e coraggiose, ed è per questo che quando sarà il momento parleremo con lui. »
La piccola Silvia non capiva, pensava che sua madre si riferisse al paradiso, quel posto che immaginava si trovasse al di sopra delle nuvole, dove si poteva vedere la vita delle persone, sentire cosa dicevano, vedere cosa facevano, dove si poteva aiutare la gente. Non sapeva però dove si trovasse suo padre, se in paradiso o all'inferno. Quest'ultimo lo immaginava sottoterra, in una grande grotta ardente, che si raggiungeva grazie a una stretta e profonda buca nel suolo. Probabilmente suo padre Gareth era in paradiso, dato che Evelin, quando parlava di lui, fissava il cielo.

«Vorresti parlare con lui?» domandò a Silvia.
La bambina ne era entusiasta e intimorita allo stesso tempo, però annuì.
«Un giorno potrai farlo, ma ora è troppo presto» concluse allontanandosi e sedendosi nel divano del salotto. Si coprì il viso con le mani ed iniziò a piangere. Silvia la osservava da lontano, ma non aveva il coraggio di consolare sua madre, non ce la faceva, dunque si allontanò dispiaciuta sussurrando scusa.

Scusa, scusa, scusa...

Si accorse che mentre stava dormendo ancora mormorava quella parola, anche se il sogno (o ricordo) era finito. Aprì gli occhi e si accorse di avere la gola secca.

Erano le 5, fuori era ancora buio, ma conoscendosi sapeva che non sarebbe riuscita a prendere sonno. Quindi dopo aver bevuto si mise una coperta e aprì la finestra della sua stanza, osservando Kyedi di notte, poi Kyedi all'alba e infine la tipica mattinata invernale.
Aveva riflettuto, aveva pensato a Daniel, a Evelin, a Gareth. Erano il passato. Un passato irrisolto.
Chissà cosa faceva sua madre in quel momento, se aspettava sua figlia, se ne era rimasta delusa e amareggiata. Era un mistero, e solo Silvia avrebbe potuto svelarlo.
Quella mattina si diresse all'ospedale, vide di nuovo il furgoncino, ma se ne fregò. Entrò, si fece notare, poi disse che sarebbe andata nel suo studio e che non voleva essere disturbata perché doveva lavorare a una cosa importante. Disturbatemi solo in caso di emergenza, sono stata chiara? Erano state le sue testuali parole.
In realtà, se ne era andata, non era nel suo studio. Non c'erano mai emergenze e nessuno avrebbe bussato alla porta, chiusa a chiave. E se invece l'avessero cercata? Beh, non le importava. Era stufa delle maledette regole. Era stufa di pensare agli altri. Doveva pensare a se stessa per la prima volta nella sua vita. Doveva farlo, per lei e per sua madre.
Si decise a trovarla.

***

La casa era esattamente come l'aveva lasciata. I muri color rosa sbiadito, le vecchie finestre che si chiudevano a fatica, il cancello rosso sempre socchiuso e le chiavi sotto al vaso di rose. Era talmente sbadata, sua madre, che aveva paura di perderle o, addirittura di uscire e dimenticarle a casa. Come vide le abitudini erano rimaste le stesse, e fu felice che fosse rimasto tutto come lo era allora. Beh, che tutto fosse rimasto identico non poteva ancora affermarlo, sarebbe dovuta entrare in casa per scoprirlo.
Esitò di fronte alla porta con le mani appoggiate delicatamente alla porta, poi si guardò intorno; le persiane erano chiuse, tutte tranne una, quella che dava al salotto. Si immobilizzò e continuò a fissare la finestra. C'era qualcosa di strano. Nebbia. No, che stupida, come diavolo faceva ad essere nebbia! Fumo. Quando lo capì sentì un vuoto, poi una paura che non aveva mai provato fino a quel momento. Fumo.
Non ci pensò due volte, quindi alzò il vaso, afferrò il mazzo di chiavi e notò con sollievo che ancora ricordava quella che serviva ad aprire la porta di ingresso. Poi entrò in casa.
Si guardò intorno velocemente, erano anni che non entrava più a casa sua, si sentiva confusa, era entrata troppo velocemente nel passato.
«Mamma» si sorprese a dire con voce tremante. «Mamma dove sei?!».
Le si inumidirono gli occhi pronunciando quelle parole, perché quando da piccola cercava qualcosa o le serviva aiuto ripeteva in continuazione "Mamma, mamma dove sei?". Poi Evelin usciva da un angolo della casa con un sorriso rassicurante e diceva "Cosa ti serve amore?".
Corse per il corridoio, il fumo iniziava a vedersi, poi svoltò a sinistra e si fermò giusto in tempo. Non ricordava che ci fosse una porta scorrevole prima della sala, per poco non ci andava contro. Sospirò. Forse era stata una recente scelta di Evelin, oppure c'era sempre stata, solo che non la ricordava.
Appoggiò la mano alla porta e si accorse che la mano le tremava, appoggiò un orecchio ad essa e sentì mormorare, sperò che fosse tutto ok, che quei suoni non indicassero nulla di grave, ma più cercava di convincersi più ci credeva di meno.
Doveva fare solo una cosa per scoprirlo. Dunque chiuse gli occhi e fece scorrere la porta.

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