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L'ospedale psichiatrico, in quella notte di luna piena, le risultava particolarmente macabro.
Prima di scendere dal veicolo ricordò un episodio avvenuto quando era insieme ad Evelin. Silvia stava guardando dalla finestra il cielo stellato la notte di San Lorenzo, e stava aspettando di vedere una stella cadente per esprimere il suo desiderio. Non ricordava quale fosse, era passato troppo tempo per ricordare un simile particolare, ma ricordava che sua madre aveva aperto la finestra dicendole che dal vetro non avrebbe visto bene. Erano uscite in terrazzo e insieme avevano aspettato interminabili minuti, in silenzio, concentrate su ogni stella. Per addolcire l'attesa Evelin le aveva fatto notare la luna piena e le aveva spiegato che quando c'era, l'energia della terra era più forte. Per un attimo si chiese se anche la sua di energia sarebbe cresciuta. Confidò in questa convinzione e scese dall'auto.
Nessuno a quell'ora l'avrebbe notata, e anche in quel caso i dottori del turno notturno non sapevano della sua sospensione. Si sarebbe inventata qualcosa se fosse servito.
Entrò tranquillamente in clinica, i corridoi erano vuoti, regnava soltanto un silenzio tombale. L'unica cosa che non aveva previsto erano le scarpe, quelle maledette e rumorosissime scarpe. Si bloccò, pensò su, e poi si tolse le scarpe. Le tenne in mano, camminando solo con il calzìni sul pavimento freddo come il ghiaccio.
Scossa dai brividi entrò nella camera di Laura e la richiuse tentando di non far rumore. Quando si voltò sobbalzò. La paziente era a pochi centimetri dal suo viso, sentiva il suo fiato sul collo, l'alito che odorava di basilico.
«È venuto a prendermi?» domandò. Aveva l'aria di un animale impaurito.
Qualcuno le aveva tagliato i capelli corvini, che ora le arrivavano alle spalle. Ma lo sguardo non era mutato, no, era sempre la stessa. La medesima Laura terrorizzata, confusa da quella visita a notte fonda.
«Tranquilla, lui non c'è» affermò serena, con un tono dolce e calmo. «Ma dobbiamo parlare piano, molto piano» aggiunse scandendo le parole.
La paziente assentì ubbidiente; si fidava della dottoressa come di una madre. O come di una sorella.
«Avanti, sediamoci un attimo sul tuo letto» la invitò Silvia, e una volta sedute prese la mano di Laura delicatamente e la carezzò. Si accorse che quella creatura stava tremando.
«Come mai eri sveglia? Dovresti dormire a quest'ora.»
«Ho sentito dei rumori e ho pensato fosse lui. Ero pronta a fargli male.»
«Oh» rispose comprensiva Silvia spostandole una ciocca dagli occhi. «Come vedi sono solo io. Però ora devo chiederti di fare uno sforzo»
La paziente annuì attenta. Era tutto pronto.

Appena fuori dalla clinica si era accesa la terza sigaretta della giornata. Tornò a guardare la luna. «Davvero mi servirà molta energia per accettarlo» mormorò.
Quando la dottoressa le aveva mostrato la foto, Laura aveva sgranato gli occhi e aveva scosso la testa insistentemente, tanto che Silvia temette che si potesse fare del male. Poi aveva iniziato a protestare.
«No, no, non lo voglio guardare, mi fa paura, non lo voglio guardare»
In un attimo aveva dato uno schiaffo al cellulare con l'immagine di Mike -era la sua foto profilo Facebook a cui aveva fatto uno screen- e lo aveva schiantato a terra con una forza inaudita. La forza della paura. Inevitabilmente l'apparecchio si era rotto, e aveva messo tutto in borsa. Una volta tornata a casa avrebbe conservato la scheda che vi era all'interno.
Mike era il colpevole. Mike era all'origine di tutto. Altrimenti perché avrebbe rifiutato in quel modo di vedere il suo volto? Scosse la testa delusa. «Non me lo meritavo» sussurrò, «non ce lo meritavamo» aggiunse in seguito.
Fece un ultimo tiro e poi schiacciò la sigaretta con la punta delle scarpe. Se le era rimesse ai piedi una volta uscita in strada. Infilando le mani in tasca mosse i suoi passi verso il parcheggio all'aperto che era proprio di fronte all'ospedale. Aveva attraversato poche auto, camminando a testa bassa, mentre i pensieri le sovraffollavano la testa. Come avrebbe agito ora? Cosa avrebbe fatto? Il primo pensiero andò a Fred e si sentì rassicurata, protetta.
Un fruscio la distolse da ciò che stava pensando. Non riusciva a capire da dove provenisse, né da cosa quel rumore fosse stato causato. L'unica cosa che sapeva era che non aveva paura. Mike si era macchiato di una grave colpa, eppure era sicura che a lei non avrebbe torto un capello. Sentì dei passi, si avvicinavano velocemente. Ora non era poi così sicura. Le certezze si sgretolarono all'istante, come per magia. Ora sentiva batterle forte il cuore. Non vedeva nessuno, ma lui si stava avvicinando a passo svelto. D'istinto indietreggiò e sentì di aver urtato qualcosa. Si voltò impaurita e quello che vide le risultò terribilmente familiare. Quella targa...
Alzò lo sguardo, gli occhi sgranati.
Un furgone.
Il furgone.
Schiuse le labbra per il terrore.
Il furgone bianco.

Ebbe poco tempo per realizzare del tutto. Sentì che qualcuno le si avventava contro premendole un fazzoletto sul volto. Tentò di urlare, ma la stoffa glie lo impedì.  Accadde tutto in poco tempo, si sentì mancare le forze. Poi più nulla.

Elise stava passeggiando per i corridoi della clinica. Il silenzio si stava dimostrando opprimente, e doveva prendere una boccata d'aria. Pian piano raggiunse l'uscita e sospirò amareggiata; doveva assolutamente dimagrire, si sentiva appesantita e si affaticava solo camminando per un breve tratto di strada. Se continuo così un giorno mi vedranno rotolare per i corridoi. L'idea la divertiva alquanto e la rassenerò solo per pochi secondi.
Il vento freddo le sferzava i capelli ricci castani. Respirò profondamente e chiuse un attimo gli occhi. Regnava una calma assoluta, una pace... Sussultò e guardò verso il parcheggio. Aveva sentito dei rumori e si era spaventata. Strizzò gli occhi tentando di riuscire a vedere qualcosa, ma aveva dimenticato gli occhiali all'interno della struttura. Sei una grassa sbadata. Si rimproverò.
Nonostante la visione sfocata intravide un uomo, o almeno le sembrò. Aveva un andatura goffa e stava caricando qualcosa nel proprio furgoncino. Erano le quattro del mattino, cosa diamine ci faceva a quell'ora davanti a una clinica psichiatrica? Ormai non si sorprendeva più di nulla.
«La gente da internare dovrebbe essere molta di più» affermò divertita.
Osservò il furgone ripartire, poi rientrò.

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