35 - Camille

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Where are we?
What the hell is going on?
[...]
Oily marks appear on walls
Where pleasure moments hung before
The takeover
The sweeping insensitivity of this Still life
- Imogen Heap, Hide and Seek


Mia madre ha ancora la pistola puntata contro fermamente di me, trema leggermente, ha gli occhi pieni di lacrime e continua a sorridere con un ghigno macabro. Continua a borbottare frasi senza senso e incomprensibili, mentre tento con tutta me stessa di non cedere al panico.

Evan è a meno di un metro da me; il freddo è pungente; la condensa che fuori esce dai nostri respiri è l'unico rumore che spezza questo silenzio soffocante.

«Mamma... Mamma, ti prego» inizio con voce tremante, le mani ancora semi alzate nella sua verso di lei. Devo cercare di farla ragionare; devo provare a parlare con mia madre e non con questa personalità macabra. È molto, molto difficile però: di mia madre, di quella donna che mi abbracciava e mi riempiva di baci, con le guance rosee e gli occhi frizzantini carichi di vita, non è rimasto nulla. Assolutamente nulla.

«Ti prego mamma, metti giù la pistola» la voce mi trema, le mani pure.

«Signora Carter, la prego ascolti sua figlia» mi aiuta Evan con tono apparentemente calmo. Lo vedo nei suoi occhi che è terrorizzato quanto me.

«Mia figlia?» domanda la donna davanti a noi con aria smarrita, «Mia figlia me l'hanno portata via loro tanti anni fa. Sono loro che me l'hanno portata via!» urla contro Evan, che si irrigidisce e trattiene il respiro non appena nota che mia madre mi brandisce contro l'arma con entrambe le mani.

«Loro mi hanno tormentata per anni» mormora piano avanzando. Sento un brivido di puro terrore percorrermi la spina dorsale e inizio a tremare ancor di più. Cosa devo fare? Cosa posso fare? Cosa farebbe mio padre in una situazione del genere?, mi chiedo cercando in fretta una soluzione. Cerco di fare mente locale dei ricordi che ho di lei quando ha le sue crisi, ma l'unica cosa che riesco a ripescare dai miei ricordi sono le infermiere che la trattengono mentre lei scalcia, del dottore che entra nella stanza della clinica e le inietta qualcosa nell'avambraccio.

«Helen» riprovo con la voce spezzata. «Helen, io so che da qualche parte c'è mia madre in te. Helen, per favore cerca di guardare oltre... Sono io mamma» mormoro sentendo gli occhi colmarsi di lacrime. Mia madre arretra di un passo con il viso contorto in una smorfia di dolore: pare quasi che qualcuno le abbia appena tirato un violento schiaffo. Inclina di lato il viso osservandomi con più attenzione e il tremito del suo labbro inferiore tradisce un guizzo di incertezza: forse se le faccio ricordare qualcosa di bello ritornerà in sé. Chissà da quanti anni non lo è.

«Ti ricordi quando curavi i fiori in giardino? Camille, tua figlia, se ne stava sempre seduta sui gradini con Mr. Gingol in mano e ti guardava. Pensava che tu fossi bellissima» continuo parlando della bimba che un tempo era felice con la sua mamma; una bimba che persino io fatico a ricordare.

«Mr. Gingol...» ripete sussurrando.

«Sì, Mr. Gingol, te lo ricordi?» domando. La prima lacrima mi riga il viso e con la coda dell'occhio noto che Evan fa un mezzo passo verso di me.

«Era il peluche di mia figlia» mormora Helen pensierosa, il viso le si contorce in una smorfia di dolore e riprende a colpirsi il capo con entrambe le mani: «No, NO! Fate silenzio» urla contro qualcosa e sussulto. «STATE ZITTI» sbraita respirando affannosamente spalancando gli occhi. Alle sue spalle, dalla casa, Bronx continua ad abbaiare come un dannato, intanto che i fari accesi luce della BMW di papà illuminano la mamma da dietro.

Si volta verso l'auto e la fissa impaurita, senza mai smettere di puntarmi la pistola contro. Evan tenta di fare un altro passo verso di me: ormai a dividerci ci sarà meno di un metro, ma il suo movimento attira l'attenzione di mia madre e si rigira di scatto verso di lui puntandogli contro la pistola. Evan deglutisce e alza immediatamente le mani e trattiene il respiro.

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