33 - Ryan

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Mama, come here
Approach, appear
Daddy, I'm alone
'Cause this house don't feel like home
If you love me, don't let go
- X Ambassadors, Unsteady

Sono passati tre giorni da quando sono tornato da Portland e mia figlia non fa altro che girovagare per la casa con i cuoricini che le escono dalle orecchie e persino dal naso.

«Giorno papà» cantilena schioccandomi un sonoro bacio sulla guancia entrando in cucina e rimango stupito.

«E da quando sei sveglia e pronta alle sette e venti?»

«Da quando sento... la primavera» azzarda con occhi luccicanti.

«Ammasso di ricci dispotici, siamo in pieno inverno» le faccio notare intanto che lei si siede e inizia a mangiare come se non ci fosse un domani i cereali che le ho preparato.
In tutto risposta fa spallucce e prosegue a mangiare imperterrita: ho messo al mondo un camionista affamato, non una giovane, dolce e bella ragazza di diciotto anni.

Iniziamo a chiacchierare delle solite banalità che affrontiamo quasi ogni mattina: le chiedo della scuola, lei risponde "Bene"; le chiedo della sua amichetta Priscilla (che tipo quella cinesina...), lei mi dice che "Sta bene"; le chiedo del cameriere e, indovinate? Oh sì, sta bene anche lui.

Prendo un altro sorso di caffè dalla mia amata tazza e leggo l'ennesima notizia del giorno sul Newport News Times. Scioccante come un turista abbia rubato una saponetta alla fragranza di mare dal piccolo negozio sul molo. Per non parlare della vecchina che è scivolata accanto al Bayfront Station, ma credo sia anche abbastanza normale considerato che sono tre giorni che nevica abbondantemente.

Riferisco il tutto a Camille che mi fissa esterrefatta, ma non dura molto dato che il suo cellulare emette un suono e il display si illumina. Forse dovrei cambiarle telefono, ma ogni volta che glielo propongo minimizza il tutto dicendo «Finché ha ancora le sue funzioni primarie, direi che posso sopravvivere anche con un touchscreen scheggiato papà». Il punto è che non mi ha ancora detto nemmeno come diavolo si è rotto.

«Vado» esclama balzando giù dalla sedia affrettandosi a prendere lo zainetto. Si volta verso di me, mi schiocca un altro sonoro bacio sulla guancia e fugge nel corridoio diretta verso la porta d'ingresso.

«Mai vista così tanta esuberanza per andare a scuola» sbuffo poggiando la tazza sul ripiano in granito e la seguo. Mi fermo sull'uscio e un basso zampettare proveniente dalle mie spalle preannuncia il risveglio di Bronx, che si apposta accanto a me e si siede emettendo un basso sbadiglio. «Buongiorno campione. Dormito bene?» gli chiedo abbassando lo sguardo e quello mi fissa con i suoi bizzarri occhioni bicolore: adoro questa sua particolarità. Abbaia una volta e lo prendo come un sì e ci rivoltiamo verso mia figlia.

Evan la sta abbracciando e le mormora qualcosa all'orecchio, al che lei scoppia a ridere e gli dà un pugno scherzoso sul petto, poi il ragazzo le prende il viso tra le mani e la bacia. Ho un'irrefrenabile voglia di intervenire e rovinarle il "Buongiorno" datole dal suo ragazzo, ma per questa volta lascio correre: mi ricordano tantissimo me ed Helen quando avevamo appena iniziato a frequentarci.
Quando finalmente si scostano l'uno dall'altra, Camille si avvia verso il posto del passeggero, intanto Evan mi nota e alza la mano in segno di saluto. Ricambio e osservo il pick-up rosso del ragazzo che lascia lentamente la piccola spiaggia di ciottoli per sparire lentamente dalla proprietà.

«E ora andiamo a lavorare» sospiro rientrando in casa. Bronx mi segue in cucina, apro la credenza dove teniamo tutte le sue scorte di cibo e prendo la scatoletta con i suoi bocconcini di carne preferiti servendogli la colazione nella sua ciottola. Come ogni mattina, dopo aver provveduto alla colazione di Bronx mi preparo per andare a lavoro e infilati anche giacca e cappotto recupero la ventiquattrore poggiata al muro in soggiorno. Sento un abbaio e mi volto ritrovando Bronx che mi fissa intensamente; prende ad annusare le mie scarpe e rialza il testone leccandomi una mano.

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