Uno

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"Hai cinque minuti?".
Kate alzò gli occhi dai documenti che stava controllando e vide la testa di Esposito fare capolino da dietro la porta.
Lo fissò per un istante, incerta se rifiutare o meno la sua richiesta, vista la notevole mole di lavoro che doveva ancora sbrigare, da sommarsi alle normali faccende quotidiane che l'aspettavano una volta fuori da lì. No, decisamente non aveva cinque minuti.
Sapeva che di qualsiasi cosa si trattasse – novità sul caso in esame, dettagli burocratici, se non addirittura la notizia di un altro omicidio appena rivenuto – avrebbe richiesto tempo e attenzione, elementi di cui al momento era sprovvista.
Ovviamente la sua titubanza fu solo retorica. Non era nella posizione di rifiutare di accollarsi altre incombenze professionali.
"Certo, entra pure", acconsentì, raddrizzando la schiena e massaggiandosi il collo contratto per via delle troppe ore trascorse nella stessa posizione innaturale.

Esposito chiuse piano la porta, si avvicinò alla sua scrivania, ma non si sedette, aspettando che fosse lei a invitarlo. Kate lo trovò come sempre un po' buffo.
Da quando era diventata capitano, qualche mese prima, si erano imbattuti spesso in momenti di lieve imbarazzo, in cui lei e i suoi colleghi di un tempo avevano faticato a gestire l'ufficialità della nuova situazione, mista al cameratismo sperimentato in passato, e ancora presente. Erano stati amici, e lo erano ancora. Dovevano solo trovare un nuovo modo di stare insieme, che combinasse il loro immutato affetto con le regole formali del suo nuovo ruolo.
Era un delicato equilibro che doveva essere coltivato quotidianamente. E il peso maggiore toccava, come era giusto, a lei.
"Va tutto bene?", le chiese Esposito, prima di introdurre l'argomento. La riluttanza che lesse sul suo viso le fece suonare il primo campanello d'allarme. Di solito non era così restio, quando si trattava di questioni lavorative. Entrava, le diceva quello che doveva dirle e se ne andava. Perché ora si stava accertando che stesse bene?
"Sì. Grazie", replicò asciutta, con l'intento di tagliar corto. "Ci sono novità nel caso di oggi?".
Allungò le mani per prendere i fogli di carta che Esposito teneva stretti al corpo, quasi a doverli difendere e che sembrava riluttante a consegnarle.
"Non si tratta di quello, Beckett...". Si fermò di nuovo esitante , cominciando a innervosirla.
"Espo, se hai qualcosa da dire ti prego di farlo in fretta. Non ho tutto il giorno".
Si pentì subito di aver parlato in modo tanto brusco. Non era da lei. Si scusò. Non aveva avuto una settimana piacevole, ma non era colpa di nessuno e cercava sempre di non scaricare sugli altri le sue frustrazioni.
Lui non sembrò dare troppo peso alle sue parole.
"È appena arrivata una comunicazione. Pare...". Le lanciò uno sguardo preoccupato e affettuoso insieme, che la riempì di inquietudine. Era successo qualcosa che la riguardava in modo personale? Stavano tutti bene? C'era stato qualche incidente? Sentì una scarica di adrenalina accelerare i battiti del suo cuore.
"Hanno ritrovato Castle", buttò lì, diritto al punto, senza nessun giro di parole.

Kate percepì vividamente i contorni sfrangiati della ferita bruciante che la solita lama provocò dentro di lei. Cercò di controllarsi per non lasciar trasparire il tumulto interiore provocato dalla notizia, che le si era ficcata dritta come un fuso nello stomaco, diventato nel giro di qualche secondo duro e dolorante, come invaso da migliaia di spilli.
Mosse la mano a descrivere dei cerchi sopra la camicia di seta color avorio, allacciata fino all'ultimo bottone, all'altezza del malessere, nella speranza di rilasciare la tensione. Un gesto che, come aveva imparato nel tempo, qualche volta le dava qualche sollievo, ma purtroppo non nel caso presente.
Desiderò avere a portata di mano le pillole che il medico le aveva prescritto, e che lei aveva diligentemente comprato, ma che giacevano abbandonate chissà dove. Un fiotto bruciante le risalì in gola. Tossì.
"Il solito mitomane che dichiara di essere stato deportato con lui su una navicella spaziale?".

Nel corso dei mesi erano arrivate numerose segnalazioni, così tante da farle perdere il conto. Nessuna di esse si era rivelata valida. Nonostante fossero state esaminate con grande attenzione, anche quelle più singolari, senza trascurare nessun dettaglio, non avevano portato a nessuna pista concreta.
Castle sembrava essersi dissolto nel nulla il giorno delle loro nozze e quella realtà era un'arma a doppio taglio. Significava che poteva essere ancora vivo, anche se le statistiche sostenevano il contrario. Ma, allo stesso tempo, lei era costretta a vivere nell'incertezza, senza poter fissare un punto fermo da cui ripartire, senza poter iniziare a dare un altro corso alla sua esistenza. Non che lo desiderasse. Non voleva un corpo da piangere. Non voleva una tomba su cui mettere fiori, l'idea l'atterriva, proprio come il primo giorno. Ma non poteva trascorrere la sua vita nella speranza del suo ritorno sempre meno probabile. Lo doveva a se stessa, in primo luogo. E poi a tutti gli altri. L'atmosfera sospesa in cui si muoveva dal giorno in cui era scomparso era controproducente. Qualche volta le sembrava di essere una donna a metà, impegnata a correre dietro a fantasmi che solo lei riusciva a vedere.
Quando sembrava andare meglio, quando il pensiero della sua mancanza si limitava a morderle il cuore solo sporadicamente, permettendole di riuscire ad arrivare a fine giornata senza aver voglia di seppellirsi nel profumo dei suoi vestiti, quando si scopriva ad avere voglia di sorridere e fare progetti, ecco che arrivava un'altra notizia del genere, che la faceva ripiombare in quelle prime ore oscure trascorse a cercarlo disperatamente, appellandosi a chiunque sapesse qualcosa, implorandolo di tornare, a qualsiasi costo.

Chiuse gli occhi, certa che stessero per ricominciare le montagne russe di un nuovo supplizio.
"No. Questa volta sembra una segnalazione valida".
Per un attimo il mondo si fermò, cristallizzandosi in quell'istante.
"Che cosa significa?", domandò sprezzante, come se lui avesse pronunciato una grande sciocchezza, ma facendolo solo per nascondere la paura.
"È stato rinvenuto dalla guardia costiera un uomo privo di coscienza su una imbarcazione di fortuna, senza documenti. È stato trasferito in ospedale. Hanno inserito i dati, fatto una ricerca tra le persone scomparse...".
"E sono arrivati noi", concluse per lui.
La pratica era sempre aperta. Era stata a lei a non permettere che archiviassero il caso.
"Ho parlato con i medici. Le caratteristiche fisiche corrispondono. Serve che qualcuno faccia il riconoscimento".
Qualcuno. Sarebbe toccato a lei. Non avrebbe permesso che lo facessero altri. Di sicuro non la sua famiglia. Voleva evitare almeno a loro l'ultima, inutile, angoscia.
"Dove è stato portato?".
"È a un paio d'ore da qui".
Non voleva. Non voleva lasciare il suo ufficio, la sua casa, la sua nicchia protettiva e guidare per ore ed essere delusa. Come avrebbe fatto a rialzarsi, di nuovo?
"Che cosa gli è successo?", si informò, preferendo concentrarsi sui dettagli pratici.
"Non lo sanno ancora di preciso. Al momento le sue condizioni cliniche non sono delle migliori. Ed è ancora incosciente".
Non doveva pensare che fosse davvero Castle. Doveva concentrarsi sul fatto che potesse essere chiunque altro, uno sconosciuto per il quale poteva permettersi di provare umana comprensione, ma nient'altro. Non pena. Non desiderio di precipitarsi a prendersi cura di lui, di abbracciarlo e consolarlo.

Lo sguardo le cadde sulle due cornici allineate davanti a lei sulla scrivania. Osservò lei e Castle sorriderle felici da un'altra dimensione. Qualche volta si chiedeva se ci fosse stato davvero un tempo in cui erano stati così innamorati. Spensierati. Avevano sempre saputo di essere un bersaglio facile ed erano stati coscienti dei rischi che correvano, ma niente era paragonabile all'opprimente assenza che aveva dolorosamente sperimentato ogni giorno di quei mesi, guardando quella fotografia.
Qualcuno le aveva suggerito di toglierla, di eliminare le tracce, di non vivere nei ricordi. Si era avventata malamente contro i portatori di consigli non richiesti. Da allora avevano smesso di intromettersi nella sua vita e la foto era rimasta al suo posto. Le dava forza e conforto, anche se gli altri non capivano.
Fece scivolare indietro la sedia, alzandosi. Prese la giacca dallo schienale, e se la infilò con gesti stanchi. I primi tempi si precipitava piena di euforia e speranza dietro a ogni indizio, anche quelli più improbabili. Con il tempo era diventato un momento da temere. Il sapore della sconfitta, che la tormentava a lungo, era diventato via via sempre meno sopportabile. Preferiva non illudersi, tutto qui.
"Vengo con te", dichiarò Esposito, alzandosi a sua volta.
"Grazie, ma ho bisogno che tu rimanga qui".
"Non ti faccio andare da sola".
"So badare a me stessa. E sono sicura che non è Castle. Andrò lì, mi accerterò che non è lui, firmerò dei documenti e tornerò a casa".
Più disperata di prima, aggiunse, solo mentalmente.
"Ho voglia di prendermi una pausa lontano dal distretto e farmi un giro in macchina. Dovresti preoccuparti del benessere dei tuoi detective".
Kate apprezzò il tentativo di alleggerire il suo stato d'animo, e l'intenzione celata dietro alla sua proposta. Se non si fosse trattato di Castle, avrebbe voluto essere presente per starle vicino. Lei non si era mai confidata con nessuno,non aveva mai espresso le proprie pene ad alta voce. Era semplicemente andata avanti. Ma Espo era sempre riuscito a trasmetterle il suo sostegno, a volte solo rimanendole seduto vicino in silenzio per ore. Come avrebbe fatto in questa circostanza, se non si fosse trattato di Castle. Ancora di più se, invece, fosse stato davvero lui.
"Preferirei che i miei detective amassero svolgere il loro lavoro, invece che volersi prendere delle pause. Ma... per questa volta puoi venire con me".
"Ottimo", le rispose compiaciuto.
"Ma guiderò io. E tu mi aggiornerai sul caso di oggi, nei dettagli".
"Sissignora".
Kate nascose il sorriso che le era salito alle labbra. Si voltò verso di lui, prima di raggiungere la porta del suo ufficio.
"Grazie", mormorò annuendo.
Non c'era bisogno di aggiungere altro.

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