Trenta

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  "Grazie per... prima", esclamò Kate, allontanando da lei il pacchetto accartocciato, dopo aver concluso le sue riflessioni, e voltandosi a guardarlo, appoggiato contro lo schienale del divano. Era un po' spettinato e aveva allentato il colletto della camicia, ma all'apparenza – fortunatamente - non era così stanco come aveva temuto.
"Per che cosa?". I ringraziamenti sembravano sempre coglierlo un po' impreparato. Le si mosse qualcosa dentro, ma preferì non indagare oltre.
"Per quello che hai fatto stasera. Io... credo di aver dato un po' di matto", confessò abbassando gli occhi.
Giocherellò con il bracciale che lui le aveva regalato e che non abbandonava il suo polso, se non quando era strettamente necessario.
"Hai spaventato a morte quel povero medico", commentò Castle con una breve risata di gola, un suono liquido che le fece pensare all'olio caldo sulla pelle. Scelse di salvarla dall'imbarazzo che quell'ammissione procurava visibilmente in lei.
"Non è vero!", protestò piccata.
"Era pallido, Beckett. Ha perfino iniziato a balbettare, quando ti sei scagliata contro di lui", continuò imperterrito, divertendosi un mondo.
Davvero? Non se ne era accorta. E lei non si era scagliata proprio contro nessuno. Chissà da quanto tempo Castle si stava tenendo dentro i commenti ironici sul suo comportamento. Si chiese se non fosse il caso di offendersi per la sua impudenza.
"Cercavo solo di fare il meglio per Alex", chiarì piccata, sapendo di non convincerlo, mentre passava e ripassava il dito su un graffio del legno.
"Incendiando l'ospedale? O facendo radiare tutti i pediatri del mondo?", continuò Castle impassibile, facendola scoppiare in una risata liberatoria.
Forse aveva esagerato. Ma solo un po'.
Il sollievo fu di breve durata. Gli era grata per aver tentato di alleggerire la situazione, ma aveva ancora qualche peso sulle spalle da togliersi.
Si torse la mani nervose e si grattò un punto sul collo, facendo comparire una chiazza rossa dai bordi irregolari.
"Non so come avremmo fatto senza di te, io e Alex. Non ero nemmeno in grado di ragionare". Faticò a confessarlo, in primo luogo a se stessa. Come aveva potuto ridursi in quello stato, per una banale influenza?
Castle percepì il cambio di atmosfera e si adeguò al suo umore e al suo bisogno – forse - di assoluzione.
Scivolò sul tappeto accanto a lei, mettendole un braccio intorno alle spalle, stringendola a sé. Kate si appoggiò contro di lui senza opporre nessuna resistenza, accettando e assaporando il contatto fisico, che scoprì di bramare. Sospirò suo malgrado.
"Ehi", mormorò vicino alla sua tempia, solleticandole la pelle. "Sarebbe andato tutto bene comunque, anche se non ci fossi stato io".
Bel tentativo, ma a lei non bastava.
"Castle, mi sono perfino sentita male! Non mi è mai successo nella vita di perdere il controllo in quel modo".
Non era vero. Aveva sperimentato le stesse spaventose sensazioni quando lui era scomparso e lei aveva girato su se stessa come una trottola impazzita, sbatacchiando scompostamente da una parete sgretolata all'altra, scorticandosi viva.
Per un certo periodo le era mancata l'aria, costantemente. Preferì non parlargliene. Non voleva risvegliare il mostro ancora acquattato sott'acqua.
"Se fossi stata da sola non sarei riuscita a occuparmi di Alex", rimarcò, come se fosse un graffio che non riusciva a smettere di tormentare con l'unghia. Era una prospettiva che l'aveva sempre terrificata e quella sera era diventata realtà. "Che ne sarebbe stato di lui? Non sarei nemmeno riuscita ad arrivare alla sedia, sarei svenuta sul pavimento, Castle".
Ok, stava diventando melodrammatica e aveva assunto quel tono lamentoso che odiava. Quello di quando pensava che il suo unico problema fosse un abito da sposa rovinato.
"Eri in un ospedale. Qualcuno ti avrebbe soccorso. Ti avrebbero dato qualche schiaffo e fatto annusare dell'ammoniaca".
Riusciva sempre a farla ridere, anche nei momenti più impensati.
"Ce l'avresti fatta, Kate. Come ce l'hai fatta per un anno intero, mentre non c'ero. E anche prima che nascesse. Non riesci a vederlo?". C'era sempre un velo di tristezza che gli raschiava la gola, quando si arrivava a quell'argomento, che non aveva ancora superato. Non l'aveva fatto nessuno di loro.
"Tu ce l'hai fatta, Castle. Tu hai mantenuto il sangue freddo. Non io", sottolineò con estrema onestà.
Castle giocherellò distrattamente con le dita sul suo collo, in silenzio, come se stesse raccogliendo le idee.
"Kate...", la costrinse a guardarlo. "Se fossi stata da sola avresti retto, come fai sempre, e poi, quando te lo fossi potuta permettere, saresti crollata per lo spavento. Come tutti. Stasera hai solo anticipato i tempi perché... non eri da sola, appunto. È così che funziona negli esseri umani. Se avessi dovuto essere una roccia, per Alex, l'avresti fatto. Visto che c'ero io... non è stato necessario".
Il ragionamento poteva non fare una piega. Avrebbe dovuto analizzarlo meglio, per auto assolversi.
"Tu non eri preoccupato?", volle sapere, incuriosita. Non aveva fatto un grande sfoggio di emozioni, visto che aveva dovuto occuparsi di Alex, di lei e soprattutto delle sue intemperanze.
"Mortalmente", ammise socchiudendo gli occhi, come se fosse qualcosa di troppo doloroso su cui soffermarsi.
Gli accarezzò una guancia. "Sembravi molto padrone di te stesso".
"Perché ho già perso anni di vita tutte le volte che Alexis è stata male, da piccola. Ho solo la pelle un po' più indurita della tua. Ma ti ricordo che nel pomeriggio ho dovuto chiamarti, perché non avevo idea di come comportarmi ed ero in panico. Quindi nemmeno io ho compiuto gesta eroiche, oggi".
Un'altra confessione onesta. Doveva essere la serata adatta a un certo tipo di confidenze. "È a questo che serve essere in due. Quando uno crolla, l'altro lo sostiene. E viceversa. Nessuno è in grado di reggere sempre, senza avere qualche cedimento. O svenire sul pavimento".
Ridacchiarono insieme. Kate assaporò il calore e il conforto che la vicinanza fisica le procurava. Rimase in silenzio, riflettendo sulle sue ultime parole.
"Credo di non essere ancora convinta che rimarrai", sussurrò, esprimendo per la prima volta una verità che aveva covato dentro, senza quasi rendersene conto.
"Non andrò più via".
Nessuno dei due aveva idea di quante volte dovessero ripeterselo ancora, perché arrivassero a crederci. Quante volte dovessero rimettere insieme i pezzi scuciti delle loro vite.
"E se ti rapissero di nuovo?". L'indicibile prese forma in un pensiero orribile espresso quasi senza voce.
"Allora ti toccherà andare in giro con dell'ammoniaca in tasca. Così eviterai di finire sul pavimento priva di sensi".
"Castle, queste cose si facevano due secoli fa. O forse solo nei romanzi", stette al gioco.
"È saggezza popolare, Beckett. Funziona sempre". Le prese il viso tra le mani. "Me lo prometti, Beckett? Mi prometti che terrai sempre una bottiglietta di aceto a portata di mano? Mi farebbe stare meno in pensiero, nel caso scomparissi di nuovo chissà dove, in uno dei giorni importanti delle nostre vite".
Lo disse con tono così teatrale, come se da quello dipendesse la sua intera esistenza, che ogni tristezza venne spazzata via da una risata fragorosa, dopo il primo attimo di incredulità.
Si ripromise di scacciare i pensieri nefasti e di godersi il presente. Se lo augurava ogni mattina quando si alzava, ma certi giorni erano più duri di altri.
Incuneò la testa sotto al suo mento.
"Era carino nel suo costume da leprotto", cambiò discorso, sorridendo intenerita al ricordo del faccino buffo che l'aveva accolta quando era corsa da loro al parco.
"Grazie per non aver detto coniglio", rispose Castle con grande solennità.
"Andiamo. Era evidente che non fosse un coniglio", protestò vivacemente.
"Capisci adesso perché ti amo, Beckett?".
L'aveva detto assecondando il flusso scherzoso del loro ultimo scambio di battute, ma la frase aveva inaspettatamente colpito un punto fragile dentro di lei.
Voleva rispondere, ma le parole si fermarono molto prima di rotolarle fuori dalla bocca.
Invece, si raggomitolò ancora più strettamente contro di lui, aspirando il suo profumo. Provò l'irresistibile desiderio di appoggiare le labbra sulla vena che pulsava alla base del collo e lo fece. Quella sera non aveva abbastanza freni per imporsi la resa.
Baciò piano la pelle morbida sotto l'orecchio, spostandosi lungo la linea della sua mascella, un po' ruvida per via dell'accenno di barba in crescita. Affondò le dita tra i suoi capelli, quando raggiunse le labbra, che si aprirono sotto al suo invito.
Castle era rimasto immobile, come se avesse paura di impigliarsi inavvertitamente nel filo sottile che li legava, rompendolo.
Sentiva però il suo respiro affrettato. Gli afferrò una mano, perché l'aiutasse a mettersi a cavalcioni su di lui, contorcendosi nello spazio d'azione limitato.
Quando le sue intenzioni gli si chiarirono in modo inequivocabile, Castle sembrò risvegliarsi all'improvviso. Le prese la testa tra le mani e la rovesciò all'indietro, baciandola a lungo con avidità.
Kate gli si strinse contro, pronta a eliminare ogni distanza, che si trattasse delle sue paure inutili o dei loro vestiti. Con dita febbrili iniziò a sbottonargli la camicia, inarcandosi contro le mani che le accarezzavano la pelle nuda della schiena.
"Kate...", mormorò Castle staccandosi da lei, vinto da un'ultima remora, che la indispettì. Non aveva nessuna intenzione di fermarsi, o di parlare o di doversi assumere la responsabilità di quello che stava facendo. Era ormai oltre quel punto e sperava che Castle la raggiungesse in fretta. Non aveva paura di pentirsi. Aveva solo paura di aspettare dell'altro tempo prezioso che aveva imposto entrambi e di cui non ricordava nemmeno le ragioni.
Provò a zittirlo baciandolo, ma lo sentì ritrarsi.
"Kate... sei sicura che...".
"Sono sicura", tagliò corto smorzando subito eventuali discussioni. "Ma se hai qualche obiezione tu, Castle...", continuò allontanandosi.
"Nessuna obiezione", ribatté prontamente Castle, andandosela a riprendere.
"Ottimo. Perché io ho sempre una pistola. E tu nessuna alternativa". Lo sentì ridere, prima di finire distesa sul pavimento, con Castle sopra di lei a ricordarle con grande precisione l'uso sapiente che sapeva fare delle sue mani e le sue labbra. Poi non ricordò più nulla.  

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