Sedici

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Si erano dati appuntamento in un piccolo caffè vicino all'ufficio dove li attendevano per sbrigare le pratiche del riconoscimento di Alex.
Kate gli aveva comunicato l'indirizzo, insieme all'orario in cui incontrarsi, con un veloce messaggio, la sera precedente.
Non se l'era sentita di avvisarlo con una telefonata perché aveva preferito lasciarlo libero di ricongiungersi con Martha e Alexis in quella che era stata la loro casa ancora prima che lei comparisse sulla scena, ma aveva segretamente sperato, contro ogni logica, che lui la richiamasse per chiacchierare con lei, prima di addormentarsi.
Non era successo. Capiva di non avere diritto di pretendere la totalità della sua attenzione, soprattutto considerando che era stata lei a farsi da parte perché altre persone ne potessero godere, ma era difficile pensare che Richard Castle facesse parte di nuovo della sua quotidianità non integralmente come un tempo, quando avevano condiviso ogni minuto delle loro giornate insieme.
Si rendeva perfettamente conto di avere pretese irragionevoli- e soprattutto molto incoerenti-, ma non poteva fare a meno di sentirsi un po' orfana di Castle, se esisteva una condizione del genere.
Aveva spento la luce presto, ma era rimasta a lungo a ripensare alla loro situazione, con il telefono appoggiato sulla pancia, sotto le coperte.

Il mattino seguente arrivò a destinazione con un leggero ritardo perché si era accordata con suo padre perché fosse lui quel mattino ad accompagnare Alex all'asilo e la cosa aveva richiesto un po' di organizzazione e di buona volontà in più.
Aveva deciso di non portarlo con sé perché non aveva idea di quanto tempo sarebbe stato necessario per concludere quella che, agli occhi di un bambino, sarebbe stata una noiosa procedura priva di ogni attrattiva.
Quando fece il suo ingresso, un po' trafelata, vide Castle impegnato a trasferire due tazze di caffè dal bancone del bar a un piccolo tavolino tondo, senza sedie intorno. Sorrise. Doveva smettere di sorridere così spesso.
Faticava ancora a credere che fosse possibile dargli appuntamento da qualche parte in città e trovarlo ad attenderla come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. Perché per due anni, invece, non lo era stata. E lei non non riusciva a dimenticarlo.
"Ehi", lo salutò festosa, entrando nel suo spazio visivo solo all'ultimo. Doveva avere molti pensieri per la testa, dato che di solito intuiva la sua presenza quando era ancora lontana, grazie al suo radar interiore.
"Dove te ne vai così bella?", la apostrofò subito con galanteria, anche se le occhiaie vistose contraddicevano l'aria allegra che aveva ostentato.
"Al lavoro. E no, prima che ti insospettisca di nuovo, non c'è nessun corteggiatore ad attendermi al distretto", puntualizzò divertita, mantenendosi sul suo stesso tono leggero.
"Lo dici come se fosse qualcosa che non ti è mai successo", osservò Castle, mescolando con supposta indifferenza il suo caffè, lanciandole intanto un'occhiata maliziosa.
Kate sorrise. Di nuovo. Non poteva farne a meno. E di nuovo cercò invece di recuperare un'aria impassibile, mentre cambiava discorso. Doveva tentare almeno di mantenere fede ai suoi propositi, che lei per prima continuava a far fallire. Non era il momento di flirtare tanto apertamente. O anche non apertamente.
"Come è andato il ritorno a casa?", gli chiese bevendo un sorso di caffè un po' troppo amaro per i suoi gusti.
Castle sospirò. "Strano. Tu non c'eri", le rispose laconico.
Kate lo scrutò in volto con attenzione. Nonostante il taglio impeccabile della giacca, che cadeva meglio rispetto a quella troppo ampia indossata il giorno precedente, sotto gli occhi arrossati erano visibili i segni della stanchezza. O forse di qualcosa d'altro.
"Sei riuscito a dormire?", si informò in tono neutro, senza palesare la sua preoccupazione.
"Non molto", ammise, senza darle altre spiegazioni. Non era da lui essere tanto silenzioso.
Kate rifletté sul da farsi, ma preferì rimandare la questione a più tardi. Il loro appuntamento era ormai agli sgoccioli e non avevano ancora parlato di quello che sarebbe successo e di come si sarebbero mossi una volta dentro.
Appoggiò la tazza sul piattino, facendolo tintinnare. Il suono attrasse l'attenzione di Castle, che era stato un po' assente. Anche quello non era normale.
"Dovremmo accordarci su una questione importante, prima di entrare", iniziò, scacciando i brutti presentimenti sul suo comportamento inconsueto, per concentrarsi sul compito che li attendeva. Non avevano avuto il tempo di discutere di nulla, visto il modo precipitoso con cui si erano svolti gli eventi che lui aveva messo in moto fuggendo dall'ospedale, il giorno prima.
Castle aspettò che proseguisse, facendosi più attento.
"La procedura è piuttosto semplice", spiegò. "Basterà che io mi dichiari d'accordo che tu lo riconosca, e che tu affermi di essere disposto a farlo".
Castle le sorrise. "Mi pare che su questo non ci sia bisogno di aggiungere altro".
Gli sorrise anche lei. "Direi di no", concesse. "Ma non abbiamo mai parlato del cognome che Alex assumerà d'ora in avanti. Qualsiasi modifica rispetto a quello attuale, cioè il mio, dovrà essere valutata e decisa dal giudice", lo informò.
Capiva che fosse una tutela giusta per un minore, ma la irritava non poter dare a suo figlio il nome che voleva. Era qualcosa che riguardava la loro famiglia, non un estraneo incaricato dalla legge, se pure presumibilmente benintenzionato.
"Quindi la paternità sarà immediatamente effettiva, ma continuerà a chiamarsi Beckett?".
"Esatto. Per il momento, sì. Dobbiamo però decidere come si dovrà chiamare e farne richiesta oggi".
"Che cosa intendi?".
Non glielo stava rendendo molto facile. "Intendo che ci sono tre opzioni. Può continuare a tenere il cognome attuale, oppure possiamo chiedere che venga integralmente sostituito dal tuo, oppure...".
"Oppure?".
"Entrambi. Entrambi i cognomi".
Castle soppesò le tre varianti.
"Alexander Beckett Castle?".
Kate annuì, un po' nervosa. Il doppio cognome era la sua scelta, anche se l'aveva elencata insieme alle altre nel modo più oggettivo possibile, per non influenzarlo.
A Castle si illuminarono gli occhi. "Mi piace. È perfetto".
Kate lasciò andare un sospiro di sollievo.
"Allora... è deciso?", si assicurò un po' ansiosa.
"Sì. E il giudice farà meglio a non avere nessuna obiezione a riguardo. Anche perché, in quel caso, non so se è al corrente che io conosco un tizio che conosce un altro tizio, per non parlare poi del sindaco...".
Lo prese a braccetto ridendo, portandolo fuori da lì. Era certa che il giudice sarebbe stato presto informato di tutte le persone che dovevano favori a Castle, in grado di aiutarlo a risolvere qualsiasi faccenda, anche quelle più disparate. Alex avrebbe avuto entrambi i cognomi, nessun dubbio a riguardo.
Andò tutto proprio come l'aveva anticipato a Castle. Ognuno fece doverosamente la sua parte. Castle dichiarò di volersi assumere la patria potestà di Alex e lei diede il suo consenso, di fronte all'ufficiale di stato civile piuttosto annoiato che li ricevette. Compilarono i moduli necessari per la modifica del cognome e firmarono molti documenti. Affaccendati nelle varie incombenze amministrative, non ebbero il tempo di assaporare il significato simbolico di quello che si stavano impegnando a compiere. Non riuscirono a guardarsi, se non di sfuggita, mentre rispondevano alle numerose domande a cui li sottoposero.
Fu solo quando si ritrovarono nell'androne umido e spoglio, quando la macchina burocratica che li aveva fagocitati li risputò fuori un po' spaesati, che Kate si rese conto che Castle era diventato il padre di Alex a tutti gli effetti.
Uscendo all'aria aperta, tagliente come il giorno precedente, con l'aggiunta di qualche fiocco di neve trasportato dal vento che descriveva spirali intorno a loro, si sentì liberata da un peso gravoso che non aveva realizzato di portare.
Non era più da sola a gestire l'immensa responsabilità di una creatura che dipendeva in tutto da lei. Le conseguenze significative del ritorno di Castle sulla vita di ciascuno erano andate palesandosi in modo graduale, ma costante. L'ufficialità era solo un tassello in più. Ma, forse, da un certo punto di vista, era quello più importante.

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