Cinque

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La chiamata che aspettava, ma per cui non sarebbe mai stata pronta, arrivò molto prima del previsto, cogliendola con la guardia abbassata. Questa volta non ci fu nessun benevolo messaggero che venne a riferirle la notizia nel suo ufficio. Si trattò di una telefonata breve, impersonale, che le venne passata direttamente dal centralino.
Rimase a fissare il ricevitore per qualche istante, dopo aver riattaccato. Accarezzò la cornice sulla sua scrivania, cercando forza nel suo sorriso, come aveva fatto ogni giorno di quei mesi, quando le serviva il coraggio di andare avanti.
Dopo qualche minuto di completa immobilità, si riscosse in preda a una irrequietezza euforica che la fece balzare in piedi, pronta ad affrontare quello che l'improvvisa svolta comportava.
Trovò solo il tempo di chiamare suo padre per informarlo della novità e accordarsi con lui perché passasse a prendere Alex all'asilo, più tardi nel pomeriggio, perché non aveva idea di quello che le sarebbe successo nelle prossime ore e si sentiva più tranquilla nel saperlo con una persona di famiglia, nel caso avesse fatto molto tardi.

La sua mente agitata non riusciva a produrre nessun pensiero coerente, mentre si precipitava freneticamente fuori dal distretto, senza avvertire nessuno riguardo alla meta verso cui era diretta, anche se immaginava che gli altri se ne fossero fatti un'idea piuttosto precisa.
Il viaggio in macchina le sembrò infinito ed esasperante; questa volta il paesaggio di periferia non servì a distrarla.
Non c'era stato il tempo di trasferire Castle altrove, perché la pratica era ancora bloccata per motivi burocratici, in attesa di un permesso che non era ancora stato rilasciato e che adesso non sarebbe più stato necessario. Dovette quindi rifarsi di nuovo – sperò che si trattasse di una delle ultime volte - tutta la strada verso la piccola clinica sperduta, da dove Castle non si era mosso.
Non sapeva che cosa avrebbe trovato una volta lì e la mancanza di controllo su quello che sarebbe successo la innervosiva più del solito.
Era indubbiamente felice che si fosse svegliato, ma, prima di deragliare nell'euforia compulsiva, doveva fare un favore a se stessa e ricordarsi che non ci sarebbero più state pietose sospensioni della pena che l'attendeva. Questa volta avrebbe dovuto guardarlo in volto, ed essere pronta a tutto quello che avrebbe letto nei suoi occhi, nel bene o nel male. Doveva essere ponta alla verità. A sapere se c'era ancora posto per loro. Esisteva ancora un loro, dopo tanti mesi? Lo stomaco, attanagliato dall'ansia, le si contorceva in spasmi dolorosi che non riusciva a placare.

Era necessario che stesse calma, si ripeté ossessivamente tamburellando sul volante con dita nervose. Non poteva permettersi di affrontare la situazione – qualunque fosse – in balia di quel turbinio di emozioni che le stavano sottraendo a poco a poco la lucidità, mentre l'ospedale si faceva sempre più vicino. Doveva fare appello al suo contegno professionale e approcciarsi agli eventi con freddezza e professionalità. Come avrebbe fatto, altrimenti, a non andare in pezzi, se lui l'avesse trattata alla pari di una sconosciuta? Se l'avesse accolta imbarazzato e distante? Se non avesse avuto il coraggio di ammettere apertamente che non provava più niente per lei? Aveva un bambino che aveva bisogno di una madre tutta intera, o che almeno provasse a esserlo. Il pensiero di Alex fu l'unica cosa che riuscì a tranquillizzarla. Il cuore non aveva smesso per miracolo di battere all'impazzata, pompando adrenalina nel suo sistema circolatorio, ma le sembrava quantomeno di aver recuperato una lieve forma di dominio dei suoi nervi. Ecco quello che avrebbe dovuto fare, concentrarsi sul loro bambino e sul suo benessere. Aveva sempre lui a cui tornare, se il mondo fosse crollato. Non era quello che era già successo in passato, quando era nato? Era stata la sua presenza, e il doversi prendere cura di lui ad aver impedito che perdesse del tutto la testa.

I suoi buoni propositi durarono giusto il tempo di salire i pochi gradini che la separavano dal reparto dove era ricoverato.
Una volta raggiunto il piano con fiato ansante, si fermò davanti all'ingresso, per raccogliere quello che era rimasto di lei e imporsi di fare qualche respiro profondo, leggermente piegata in avanti, una mano appoggiata sul muro a cercare un equilibrio che le gambe tremanti non garantivano e gli occhi incollati a terra per la paura di quello che avrebbe incontrato oltre la soglia.
Quando le sembrò di essere almeno in grado di muoversi, lanciò un'occhiata nervosa nel corridoio illuminato da impietose luci al neon e fu lì che lo scorse. In piedi, aggrappato al tubo di metallo della flebo il cui ago era ancora inserito sul dorso della mano, infagottato nel camice anonimo che l'ospedale gli aveva fornito.
Era spaventosamente magro, ma sempre lui. Era sempre l'amore della sua vita. Lo sentì con una forza e chiarezza che non sarebbero indietreggiate di fronte a nessuna verità, per quanto scomoda e crudele.
Castle alzò la testa, intercettandola quando era ancora bloccata all'entrata, incerta se avanzare o meno, come se avesse avvertito la sua presenza grazie alla loro sintonia innata.
Lo fissò per un lungo momento, scrutandolo in cerca di indizi rivelatori sul suo stato d'animo, prima di prendere qualsiasi iniziativa. Castle ricambiò il suo sguardo, senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso, come se fosse stata una visione inaspettata.
Si mossero istintivamente l'uno verso l'altra, quando Castle allungò le braccia verso di lei senza pensarci, per chiamarla vicino a sé. Kate, fisicamente più in forma e non intralciata dai vari tubi ancora attaccati al suo corpo, dimentica di tutte le sensate raccomandazioni che si era rivolta, volò da lui, finendo la sua corsa sull'ampio petto. Ritrovò la nicchia confortevole in cui tante volte aveva cercato e ottenuto conforto, la testa infilata sotto il suo mento, sentendo il suo respiro affrettato tra i suoi capelli.
Lo strinse come se avesse potuto tornare indietro e salvarlo da tutto quello che di orribile gli era capitato e che tante volte si era immaginata nei dettagli più sconfortanti. Aspirò profumo di medicazioni e disinfettante, sfregando la guancia contro il tessuto ruvido che indossava, ma avvertendo sotto a quegli aromi sconosciuti e sgradevoli tracce del suo odore familiare, che non aveva mai abbandonato la sua memoria olfattiva.
Si lasciò stringere nella morsa gentile delle sue braccia che, come un tempo, riuscivano ad avvolgerla completamente, senza che nessuna parte di sé venisse esposta alla crudezza del mondo circostante.
"Kate", lo sentì mormorare nel suo orecchio. "Kate. Kate. Kate".
Provò un mancamento nel sentire la ripetizione ossessiva del suo nome, una litania non del tutto cosciente in cui percepiva un dolore sordo che aveva radici lontane, che quasi le strappò un gemito di angoscia per quello che riusciva a scorgere in profondità.
Si aggrappò a lui con la forza della disperazione delle notti passate sentendo nelle viscere la lacerazione dovuta alla sua mancanza e la necessità pressante che tornasse da lei, a qualsiasi costo, in qualsiasi condizione, purché vivo.
Non seppe per quanto tempo rimasero allacciati, non era nemmeno in grado di dire se ci fosse qualcun altro nella stanza con loro. Si staccarono solo quando Castle incominciò improvvisamente a muoversi all'indietro, non più in grado di sostenerla. Si spaventò nell'assistere alla perdita di forze che lo costrinse ad adagiarsi sul letto, pallido e provato. Era stata lei? Aveva fatto qualcosa di male? C'era qualcosa che non andava nelle sue condizioni cliniche, forse un improvviso peggioramento di cui non era stata messa al corrente?
Gli si sedette accanto, tenendosi un po' lontana, temendo di infastidirlo, anche se fu Castle a pretendere di nuovo un contatto fisico ravvicinato, affondando la testa contro il suo collo. Gli accarezzò la guancia, trattenendosi dal mormorare i suoni cantilenanti che usava di solito per calmare Alex.
"Devo sdraiarmi", le comunicò a bassa voce, un po' imbarazzato da quella manifestazione di debolezza. "Mi dispiace".
Kate colse l'occasione di quel momento di distrazione per asciugarsi furtivamente qualche lacrima, mentre lo pensava affaccendato a posizionare meglio i cuscini dietro la schiena per trovare sostegno. Castle fu più rapido di lei. Sentì le sue dita leggere sulle guance cancellarle le tracce del pianto silenzioso, prima ancora che si rendesse conto che lui l'aveva notato. Ne fu commossa, ma non stupita. Era sempre stato bravo a capire i suoi stati d'animo e cogliere ogni più piccolo cambiamento d'umore. Era confortante vedere che certe abitudini non erano cambiate, nonostante la lunga separazione. Le sorrise e lei si sentì annegare nella promessa che vi lesse, quella che sarebbe andato tutto bene.
Non si era mai resa conto di quanto somigliasse ad Alex. Dalle fotografie le similitudini fisiche non erano così evidenti e aveva sempre ritenuto saggio non fidarsi della sua memoria, che le faceva vedere cose inesistenti, indotte dalla necessità di trovare in Alex tracce di suo padre. Si trattava di qualcosa di meno lampante, più sfumato. Riconobbe una certa familiarità nel modo in cui inclinava la testa, e come gli si incurvavano gli angoli delle labbra, ritrovando suo figlio in una miriade di altri piccoli dettagli che stavano prendendo vita sotto ai suoi occhi.
Fu solo quando gli spostò dalla fronte l'identico ciuffo di capelli che sfuggiva a ogni tentativo di essere tenuto in ordine – una battaglia persa in partenza proprio come la sua quotidiana con la chioma di Alex – che si rese conto, per la prima volta, che quello che era successo era reale.
Non era un sogno dal quale si sarebbe svegliata sudata e in preda al panico e al rimpianto. Era tutto vero. Era tornato. Qualsiasi cosa sarebbe successa da lì in avanti, lui sarebbe appartenuto al mondo dei vivi. Si sentì il cuore al sicuro, come se l'ombra lunga della tragedia si stesse finalmente ritirando dalla sua vita.  

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