Otto

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"Non l'ho portato perché è troppo piccolo, ai bambini sotto a una certa età non è consentito visitare i degenti", gli spiegò con tranquillità.
Non ne era del tutto sicura, non aveva idea di quale fosse il regolamento della clinica in cui era ricoverato, ma preferì fornire un'obiezione sensata, in modo da troncare qualsiasi ulteriore polemica.
"E si chiama Alex. Alexander, per la precisione".
Perse un po' della sua baldanza, proseguendo. Era sempre stata costretta a prendere da sola le decisioni che riguardavano il loro bambino, incurante dei consigli altrui, soprattutto quelli non richiesti, ma adesso, per la prima volta, si trovava davanti qualcuno che avrebbe avuto ogni diritto di contestare le sue scelte. L'unico. Si innervosì.
Castle le sorrise dolcemente.
"È il mio...".
Lo interruppe. "Sì, è il tuo secondo nome", concluse in fretta al suo posto. Abbassò lo sguardo sulle mani raccolte in grembo. "Volevo un nome che ti ricordasse in qualche modo". Si mordicchiò le labbra, scontenta di sé. Era stata una pessima scelta di vocabolario. Non c'era mai stato nessun bisogno di ricordarlo, perché lei aveva sempre respinto con forza l'idea che fosse morto.
"Che avesse un collegamento con te", si corresse, sorridendo a sua volta guardando altrove, troppo insicura per incontrare i suoi occhi. "Non potevo certo chiamarlo Richard", terminò sbuffando.
Questa idea, che a turno le avevano suggerito con insopportabile frequenza quando aveva scoperto che sarebbe stato maschio, aveva avuto il potere di atterrirla al solo pensiero.
"Hai ragione", convenne Castle, che sembrava essersi distaccato dalla realtà circostante per assaporare il nome di suo figlio, facendoselo rotolare sul palato con espressione sognante. "Sarebbe stato strano avere due Richard Castle contemporaneamente presenti, non trovi? Anche se avresti potuto chiamarlo Ricky Junior. Avrebbe dato un senso dinastico alla nostra famiglia".
Annuì fingendo di prendersi molto sul serio. Kate gli fu grata perché si era mosso con delicatezza su un terreno scivoloso e ancora doloroso per lei. Non era stato così scontato che, a un certo punto, lui e suo figlio sarebbe stati presenti contemporaneamente nella sua vita.
Le spiacque, quindi, dover frenare il suo entusiasmo.
"Si chiama Beckett". La scrutò senza capire. "Gli ho dato il mio cognome", confessò sentendosi un po' in colpa, pur non avendone motivo.
La reazione di Castle le confermò che il suo equilibrio emotivo era più fragile che mai: il suo viso si accartocciò, profondamente toccato dalla notizia, e non in senso positivo. Cercò malamente di riprendere il controllo, senza riuscirci.
"Perché?", la sollecitò con voce dimessa. "Pensavo... hai detto che volevi un nome che mi ricordasse. Perché non il cognome, allora? È perché eri arrabbiata con me?".
No, no, no.
Era tutto sbagliato. Kate realizzò con allarme che si era rivolta a lui come avrebbe fatto in passato, con la certezza di avere di fronte l'uomo sicuro di sé che era sempre stato. Invece c'erano pozze di fragilità dove non si aspettava.
"No, Castle. Hai frainteso. Non è stata una mia scelta. Non potevo farlo. Non legalmente. Non eravamo sposati, quando è nato", la spiegazione le morì in gola, quando dovette rimarcare il loro stato civile e far rivivere così l'incubo del loro matrimonio mai celebrato.
"Ma stavamo per farlo! Era evidente che fosse mio figlio", protestò con forza.
"Hai appena sospettato tu per primo che fosse di un altro", gli fece notare con una sarcastica alzata di sopracciglia, che le ricordava i bei vecchi tempi.
"Ok. Obiezione sensata. Ma è perché gli uomini ti vogliono e io non ero qui a...".
Kate gli lanciò un'occhiata severa con cui intendeva metterlo in guardia dal proseguire. "Dissuaderli fisicamente dallo starti intorno", concluse Castle socchiudendo gli occhi, pronto a ricevere la lavata di capo pronta per lui.
Lo avevano sostituito con l'uomo di Neanderthal? Dove l'avevano tenuto? Nella preistoria?
"Combattono anche per farsi notare da me a colpi di chi ha le piume più appariscenti, questi uomini che mi vogliono? Sai, come facciamo noi donne di solito per scegliere il migliore della specie".
Si era infilato in un vicolo cieco per alleggerire la tensione e ne era perfettamente consapevole, quindi preferì smettere di scherzare e decise di rispondere con sincerità, spiazzandola.
"Sì, no. Ok. Scusami, sono stato un idiota. È solo che... era legittimo pensare che dopo tutto questo tempo ti fossi rifatta una vita. Era un tuo diritto". Le aveva appoggiato una mano sul ginocchio, mentre finiva di parlare con tono sommesso.
Kate accavallò la gamba sull'altra, sottraendosi al suo tocco. Castle ritrasse la mano con discrezione.
Non era pronta a un contatto di quel tipo. Era confusa ed emotivamente troppo esposta. Era meglio affrontare il discorso di Alex senza nessun contatto fisico. Doveva rimanere lucida e pensare al suo bene, non al proprio.
"Non mi sono rifatta una vita", ammise sottovoce, tagliando corto. "Ma per dare il tuo cognome al bambino... A nostro figlio", si era corretta con uno sforzo. Era ancora difficile smettere di pensare ad Alex come un bambino orfano di padre che aveva solo lei a difenderlo dal mondo. L'uso del possessivo plurale la metteva a disagio. Si sentiva vulnerabile al pensarlo fuori dai confini di se stessa. "Era necessario provare che fosse tuo, fare un test del DNA. Non me la sono sentita".
"Non bastavano le testimonianze di qualcuno che ci conosce? Sono sicuro che mia madre e Alexis avrebbero accettato".
Sì, ci avevano pensato. Le altre due donne avevano insistito per andare in tribunale a presentare istanza che Alex entrasse legalmente a far parte della famiglia, ma lei aveva preferito lasciar perdere.
"C'era quella possibilità, è vero, ma...", venne la parte difficile. Sorrise a nessuno in particolare, per darsi coraggio. "Ho sempre assurdamente sperato che, un giorno, saresti stato tu a farlo. A dargli il tuo cognome". Arrossì. "So che è una cosa stupida, ma mi sembrava che, lasciando in sospeso la questione, in qualche modo, fosse più probabile il tuo ritorno. Se avessi avviato la pratica la tua assenza sarebbe stata definitiva". Prese fiato. "Così... mi sembrava di tenerti in vita, ovunque fossi. Perché dovevi tornare per Alex", concluse in un soffio. Avrebbe avuto un gran bisogno di una boccata d'aria e di un bicchiere di vino. Non necessariamente in quest'ordine.
Castle si rianimò di colpo, vinto da un'improvvisa agitazione. "Lo farò, Kate. Farò tutto il necessario. Domani. Subito".
Aveva allungato di nuovo una mano per afferrarla, forse per diminuire la distanza e convincerla di essere davvero tornato, e, soprattutto, di non essere morto. Tutto sommato le sue pratiche scaramantiche avevano funzionato. All'ultimo si ritrasse.
"Non c'è nessuna fretta, Castle...".
"Certo che sì". Il tono veemente la fece sussultare. Aveva cambi d'umore così repentini che faticava a stargli dietro. "È mio figlio. Voglio che abbia il mio cognome".
D'un tratto sembrava diventata una questione di vita o di morte. Cercò di calmarlo, ma lui non sentì ragioni.
"Ho scoperto cinque minuti fa di avere un bambino", sottolineò come se lei fosse ottusa o non si rendesse conto dell'eccezionalità dell'evento. "Voglio recuperare il tempo perduto e invece sono costretto a rimanere inchiodato in questo letto", si lamentò a gran voce. "Sai che cosa vuol dire per me dover starmene qui impotente, con un buco di venti mesi da riempire e un figlio che non ha idea di chi sia suo padre? Certo che voglio riconoscerlo il prima possibile. Voglio vederlo, voglio incontrarlo,voglio che impari a conoscermi", concluse arrabbiato e deluso per la sua mancanza di comprensione, che la fece infuriare.
"Alex non andrà da nessuna parte, Castle!", sbottò senza riflettere. "Non c'è bisogno di irrompere nella sua vita senza nessuna sensibilità. Dobbiamo procedere con calma, per gradi. E devi pensare a lui, non a quello che vuoi tu. È tuo figlio, Castle, non scapperà di certo. Non te lo porterò via. Ci sarà sempre, per te, anche se non sarà oggi, o domani", lo rimproverò, forse un po' troppo bruscamente.
Quando si trattava di Alex si accendeva in lei un istinto protettivo troppo intenso, secondo alcuni. Secondo lei invece era giusto così.
Castle ammutolì di fronte alla sua uscita tagliente che lo spiazzò. Rimpicciolì davanti ai suoi occhi, seppellendosi più a fondo nel letto. L'aveva spaventato di nuovo. Sospirò. Avrebbe dovuto imparare a rivolgersi a lui con più gentilezza. Era debilitato e provato, doveva tenerne conto, invece di litigare e gridargli contro.
"E tu, Kate?", le rivolse uno sguardo penetrante. "Anche tu ci sarai per me?".
La domanda la lasciò senza fiato e scombussolata. Non era pronta a certi interrogativi. Non se li poteva permettere ed era inopportuno da parte sua porli. Si chiuse in se stessa. "Io sarò sempre accanto ad Alex e penserò principalmente al suo bene", dichiarò con fermezza, stabilendo quindi i margini della loro relazione futura. Per il momento erano solo i genitori del medesimo bambino e il loro rapporto si sarebbe limitato a quello. Il resto era troppo prematuro, e non pertinente.
Castle accolse le sue parole, e la chiara intenzione che intendevano trasmettergli, senza battere ciglio. Sembrò solo spegnersi. E rassegnarsi.
"D'accordo. Faremo con calma, rispettando i tempi. Non voglio irrompere nella sua vita, Kate. Voglio solo farne parte, ma lo farò alle tue condizioni". Era così contrito e afflitto, perdendo tutta l'esuberanza fin lì mostrata, che la fece sentire in colpa.
Voleva rimediare, non poteva convivere con la sensazione di averlo mortificato gratuitamente, forse. Aveva solo reagito per come era stata abituata a fare in quell'anno, quando si era trovata di fronte a qualsiasi minaccia che potesse turbare la serenità di Alex. Le fece tenerezza.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, che Kate trascorse torcendosi le mani, rammaricandosi che la situazione fosse precipitata e con la sensazione che avesse rovinato il loro primo incontro.
Fu Castle il primo a riprendersi, cambiando discorso.
"Quindi ho una figlia che si chiama Alexis e uno Alex? Hai sempre sostenuto che fossi io ad avere un senso dell'umorismo singolare, ma vedo che anche tu ti difendi bene, Beckett", sghignazzò. Le piccole rughe intorno agli occhi le ricordavano il vecchio Castle allegro e brioso. Anche la fossetta sulla guancia.
Kate non si alterò, nonostante il tentativo sfacciato di prendersi gioco di lei. Era abituata a quel genere di commenti. Fin da quando Alex era nato, praticamente chiunque si era sentito in diritto di chiederle perché mai avesse scelto quel nome. Ormai non ci faceva nemmeno più caso. Aveva deciso di chiamarlo Alexander e nessuno era stato in grado, in quella come in tutte le altre circostanze che lo riguardavano, di farle cambiare idea. Aveva il presentimento che la gente la temesse, già in condizioni normali, ma che quando si trattava di lei come madre, la evitasse del tutto al solo apparire all'orizzonte.
Gli sorrise sardonica. "Già che ci sei vuoi anche cambiargli il nome di battesimo, mentre cacci gli altri uomini dalla caverna e mi mostri le piume della tua coda da pavone?", lo provocò.
Castle si mise a ridere forte. "No, mi piace Alex. Ma sono sempre pronto a mostrarti la mia coda da pavone. Sono sicuro che sia meglio di quella di tutti gli altri contendenti". Le fece l'occhiolino.
Kate arrossì. Stavano davvero flirtando? Doveva ritrovare il contegno adeguato alla situazione.
"Dove è adesso?".
Kate gli rivolse un'occhiata furibonda, che lo costrinse ad alzare le mani in segno di resa. E pensare che si stava finalmente rilassando. "Ehi, calmati. Non voglio balzare dal letto e precipitarmi a vederlo. Voglio solo sapere qualcosa di lui. Hai delle fotografie?", le domandò un po' implorante, temendo forse di invadere di nuovo il suo territorio di madre particolarmente irascibile.
"È a casa con mio padre".
"Immagino che non viviate al loft". Non era un'accusa. Solo una constatazione lievemente amara.
"Nessuno vive al loft, Castle. Tua madre è stata spesso via in tournée e Alexis è a studiare in Europa da qualche mese. E per molto tempo i tuoi conti bancari sono stati bloccati".
Aveva parlato in fretta, perché se anche era inutile tergiversare, la demoralizzava continuare a infliggergli una brutta notizia dopo l'altra.
Castle sembrò aver ricevuto il colpo definitivo, sotto il quale si arrese. Chiuse gli occhi come se non potesse sopportare altro. Era come se si rendesse per la prima volta conto di quello che dovevano aver passato senza di lui. Tutti i cambiamenti, il dolore, gli imprevisti e le complicazioni imposti dalla sua assenza.
"Ma tua madre si trasferirà per qualche tempo con te al loft. Ha già provveduto a riaprirlo e a renderlo abitabile. Te ne parlerà al suo arrivo, tra poco", lo informò, decisa a non toccare più la questione.
Era tempo di cambiare la direzione emotiva al loro incontro, prima che si rivelasse un completo disastro. Fino ad allora non avevano avuto grande successo.
Kate prese il telefono dalla tasca con mani impacciate. "Sì, ho delle foto di Alex", annunciò, accantonando il resto. Ci sarebbe stato il tempo di spiegargli la situazione nel dettaglio. "Vuoi vederle?". Ne aveva migliaia. Avrebbero fatto notte.
Castle annuì, grato.
Kate si accomodò vicino a lui, appoggiando la schiena al suo cuscino, perché le guardassero insieme. Castle accolse la vicinanza che gli concesse facendo finta di niente, senza nessun commento e senza forzare i confini che lei aveva definito. Non cercò di abbracciarla o di invadere il suo spazio.
Le batteva il cuore forte, sentendosi come se fosse in procinto di presentare a un padre il figlio fin lì sconosciuto, in carne e ossa. In fondo l'avrebbe visto per la prima volta. Avrebbe scoperto i suoi lineamenti, proprio come lei quando glielo avevano appoggiato sulla pancia, dopo il parto.
E lei gli avrebbe raccontato qualche aneddoto buffo, gli avrebbe descritto i tratti più notevoli del suo carattere, quello che gli piaceva e quello che lo faceva piangere e arrabbiarsi. Gli avrebbe parlato dei suoi sorrisi e dei suoi capricci che la facevano impazzire.
Lo guardò a lungo, mentre lui faceva scorrere in fretta le foto sullo schermo. Si crogiolò nel suo entusiasmo, la voglia di saperne di più, rispose alle centinaia di domande. Tutto quello che avrebbe voluto era nascondere la testa nell'incavo del suo collo, farsi abbracciare e scaldare dalla sua presenza. Voleva solo sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene.

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