Trentasei

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Kate si guardò intorno, scoraggiata. L'enorme mole di scatoloni di varie misure, disseminati su quello che una volta era stato il pavimento del suo appartamento, era un visione desolante.
Avrebbe dovuto portarsi avanti, organizzarsi, procedere con calma, chiedere aiuto a qualcuno, magari. Qualcuno di esperto.
Ma si era ostinata a voler fare da sola, convincendosi di avere tutto sotto controllo, grazie alle sue doti pratiche, e si era quindi ritrovata un sabato mattina a bere del caffè freddo in una tazza ingrigita dalla polvere, che aveva scovato sopra a uno scaffale, comprata chissà dove. Le sue preferite erano al distretto o a casa di Castle. La sua nuova dimora, pensò alzando la tazza in un silenzioso brindisi. Bevve un altro sorso dell'intruglio disgustoso che aveva tra le mani.

La mattina era iniziata male quando Castle si era svegliato accanto a lei in preda a uno dei suoi frequenti attacchi di euforia, felice come una Pasqua perché era il giorno in cui lei e Alex si sarebbero trasferiti definitivamente da lui.
"Nella nostra vera casa", aveva ripetuto ossessivamente nelle settimane precedenti, fino a farle scoppiare il cervello.
Lei non aveva subìto il medesimo fascino nei confronti dell'evento che lui aveva segnato perfino sul calendario, chiamandolo pomposamente "Il primo giorno della nostra nuova vita", perché lei e Alex potevano considerarsi inquilini del loft a tutti gli effetti ormai da diverso tempo.
Ma Castle aveva insistito perché la faccenda diventasse ufficiale. Dovevano stabilire un giorno preciso, inscatolare tutto, dividere quello che avrebbe viaggiato con lei e quello che avrebbe preferito conservare in un magazzino, o dare in beneficenza.
Lei aveva scelto la via di minor sforzo e aveva accettato passivamente i suoi scoppi di ingiustificato entusiasmo, deviando in fretta il discorso finché non era più stato possibile rimandare l'inevitabile.
Si era però dileguata da casa molto presto, quel giorno, baciandolo di sfuggita mentre si alzava lieto per andare a farsi una doccia prima di uscire con lei, così come avevano convenuto. Come lui aveva deciso e lei aveva lasciato che pensasse, senza confessargli la verità. E cioè che lui non sarebbe stato gradito. Era invece sgattaiolata fuori dalla porta, scivolando in fretta nell'ascensore, agendo alle sue spalle.

Non aveva nessuna voglia di dedicarsi a quel compito, ripeté tra sé per l'ennesima volta, sapendo che lamentarsi non sarebbe servito a niente, se non ad alimentare la sua frustrazione. Doveva pensare positivo, le avrebbero suggerito quelle riviste che non aveva mai il tempo di leggere. Doveva svolgere prima le incombenze meno piacevoli – e cioè tutte –, preparare delle liste, fingersi di buonumore e magari canticchiare allegramente mentre riponeva piatti di ceramica con un fazzoletto di cotone spesso annodato in testa.
L'immagine le strappò un gemito. Appoggiò con un gesto deciso la tazza sulla prima superficie disponibile, forse un po' pericolante, imponendosi di alzarsi e iniziare a darsi da fare, con una forza di volontà che sentiva vacillante.
Fu in quel momento che sentì risuonare i passi familiari di Castle che si avvicinavano alla porta lasciata socchiusa, prima di fermarsi ad aprirla aiutandosi con un colpo di gomito, dal momento che aveva entrambe le mani impegnate.
"Sono venuto a salvarti e farti fare una pausa", annunciò con affettuosa gentilezza che la fece sentire un po' in colpa. Non gli disse che non aveva fatto nessun progresso. Nel suo appartamento sembrava essere appena esplosa una bomba.
Lui dal canto suo non fece nessun commento sul fatto che fosse praticamente evasa da casa come una ladra per sfuggire alla sua sorveglianza. Lo trovò molto cortese da parte sua e questo la fece sentire peggio.
Si lasciò baciare su una tempia, accettando con un sorriso riconoscente il contenitore di caffè bollente, il cui forte aroma le solleticò le narici. Era decisamente più allettante di quello che si era preparata con i mezzi di fortuna di cui era stata provvista.

"Posso aiutarti? Come ti sei organizzata?", esordì dandosi un'occhiata in giro, pieno di vitalità, cosa che la fece sentire ancora più miserabile. Non aveva il coraggio di confessargli che si era limitata a rimanere seduta in mezzo ai suoi averi fissandoli torva. E nient'altro.
"Ti ringrazio, Castle, ma posso farcela da sola. Ho praticamente finito", rispose con la miglior faccia di bronzo che riuscì a imbastire.
"Non mi sembra", commentò Castle, osservando meditabondo il disordine in cui la stanza era immersa.
"Sono cose che vanno per le lunghe, lo sai anche tu". Lo sapeva? Non ne aveva idea, ma meglio lanciare qualche esca intrisa di buon senso, sperando che abboccasse.
Non le fece. Si tolse la giacca, si risvoltò le maniche e in un attimo se lo trovò a ficcare il naso tra i suoi oggetti personali in preda a uno zelo operativo che batteva di gran lunga il suo.

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