Sette

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Una volta fuori dalla sua stanza, mentre approfittava della pausa per raccogliere i pensieri confusi e frenetici, cercando il modo di energizzarsi con un po' di caffeina, Kate venne fermata dalla psichiatra di turno in quel momento, la stessa che – così si presentò - aveva esaminato Castle a causa della sua apparente amnesia, di cui voleva discutere con lei.
Castle aveva già provveduto, fin dal suo risveglio, a inserirla nella lista delle persone che avevano il permesso di essere informate delle sue condizioni di salute, anche se non erano legate da vincoli di parentela.
Kate accondiscese e si predispose all'ascolto, anche se, in tutta onestà, non si sentiva nello stato d'animo adatto a ricevere altre informazioni, di qualsiasi natura fossero. Aveva già troppo da processare per conto suo.
Quello che il medico le comunicò, con tutto il tatto possibile, fu qualcosa che la disorientò ancora di più.
Venne messa a conoscenza del fatto che l'amnesia non aveva nessuna causa fisica riscontrabile. Ovviamente la psichiatria non era una scienza esatta e non si poteva escludere che avesse assunto sostanze stupefacenti di qualche tipo, anche se era singolare che il periodo di tempo perso nell'oblio della dimenticanza fosse tanto preciso. A Kate parve di capire che il medico le stesse suggerendo, tra le righe, che Castle poteva aver scelto quella soluzione per tenerle nascoste verità sgradevoli. In breve, secondo la donna Castle stava mentendo.
D'un tratto aleggiò nell'aria lo spettro dell'abbandono sull'altare, consapevole e non imposto, da parte di quello che era stato il suo fidanzato, il giorno del loro matrimonio. Le sembrò di essere precipitata di nuovo nel medesimo incubo.
Qualcun altro stava sostenendo, proprio di fronte a lei, che era il caso che tenesse in considerazione il fatto che Castle si fosse allontanato volontariamente.
Il primo istinto fu quello di non crederle, irritandosi, di negare con forza, come aveva fatto con l'agente dell'FBI nelle prime fasi delle ricerche. La ringraziò a denti stretti, ma decise tra sé di chiedere un altro consulto. Non poteva fidarsi di una specialista che aveva visto Castle una sola volta, e di cui non conosceva il curriculum.
Adesso che era finalmente sveglio, se pur non in completa forma, avrebbero dovuto pensare a lasciare quell'ospedale sconosciuto che, per quanto ne sapeva, poteva non brillare nella scelta di medici talentuosi.
Eppure sapeva di mentire a se stessa, mentre programmava i prossimi passi con precisa determinazione. Dentro di lei qualcosa le diceva che erano tutte scuse, quelle che si stava inventando, create con il solo scopo di proteggersi da una verità dolorosa. Aveva una natura troppo rigorosa per accettare di non tenere in considerazione tutti i punti di vista. Era un suo specifico obbligo – perchè così le avevano insegnato – quello di ritenere valide tutte le ipotesi, anche quelle spiacevoli, fino a prova contraria.
Castle poteva aver mentito? L'istinto le diceva di no, le era sembrato sincero nel confessarle dispiaciuto, quasi angosciato, di non avere le risposte che si aspettava da lui. L'amava. Glielo aveva appena ripetuto.

Venne interrotta nelle sue riflessioni quando i medici, che erano rimasti chiusi nella stanza di Castle, le diedero il permesso di rientrare. Si chiese come avrebbe potuto affrontarlo, in quelle condizioni. D'altro canto era stata lei a insistere perché accantonassero per il momento l'argomento, non poteva di certo entrare e mettersi a lanciare accuse. Sperò che il dubbio, che inosservato si era collocato nelle pieghe del suo scetticismo, non fosse tanto evidente. Forse aveva perso la capacità di leggerle nella mente con facilità, si augurò.
Si sforzò di stamparsi sulle labbra un sorriso pieno di calore, prima di tornare da lui, che l'accolse più sereno di quanto non si fosse mostrato fino a qualche minuto prima. Kate indovinò che anche lui ce la stava mettendo tutta per non rovinare il loro primo incontro, concordando con lei di lasciare in sospeso argomenti dolorosi, inutili da sviscerare in quel momento.
"Che cosa è successo ai tuoi capelli?". La domanda la prese in contropiede, non appena ebbe rimesso piede nella stanza.
Se li toccò nervosamente. Era una considerazione un po' triste da fare, ma erano stati separati così a lungo che faticava a ricordare quali eventi fossero accaduti dopo la sua scomparsa e quali prima, soprattutto se si trattava di dettagli poco significativi, come il drastico taglio di capelli che era seguito alla scoperta della sua gravidanza.
In modo poco originale, forse, aveva sentito il bisogno di celebrare l'evento con un gesto simbolico di rinnovamento. La sua chioma tranciata di netto, in un modo che doveva essere apparso brutale, aveva suscitato stupore tra i suoi colleghi, all'inizio, ma con il passare dei mesi nessuno vi aveva fatto più caso, anche perché da allora li aveva lasciati semplicemente ricrescere, una volta esaurita la necessità di cambiamento che l'aveva spinta a osservare senza nessun trasporto emotivo le ciocche cadere a terra una dopo l'altra. Tanto lui non vi avrebbe più fatto scorrere le dita.
Erano solo leggermente più corti rispetto a quando Castle se ne era andato, rifletté sorpresa, ma lo erano abbastanza perché lui notasse la differenza. Anche se si trattava di un particolare poco importante, fu felice che lui se ne fosse accorto.
Non le diede il tempo di replicare, visto che aggiunse subito dopo, ostentando uno stupore maggiore: "E anche i vestiti sono diversi. Perché sei così elegante? Sono cambiate le regole al distretto? Oppure sei diventata senatrice o qualcosa del genere? Sindaco, magari?".
Kate sorrise. La stava volutamente prendendo in giro, proprio come faceva un tempo, con il solo intento di rallegrarla e far svanire pensieri sgradevoli, anche se era percepibile una perplessità reale, sotto la superficie allegra.
"No, non sono diventata sindaco", lo informò divertita. "Ma sì, c'è una novità". Fece una pausa a effetto per creare pathos, pur sapendo che non sarebbe mai stata all'altezza delle sue capacità di intrattenitore.
Castle si accomodò meglio per ricevere la grande notizia, invitandola con un ansioso cenno del capo a proseguire. "Ti presento il nuovo capitano del nostro distretto", annunciò fiera, trattenendosi dal fare una giravolta gioiosa su se stessa. Aveva sempre voluto metterlo al corrente del suo successo lavorativo. Finalmente era arrivato il momento tanto atteso.
Castle spalancò gli occhi, pieno di orgoglio. "Congratulazioni! Qualcuno ha fatto carriera, Vero? Che ne hai fatto della Gates, per convincerla a mollare il suo incarico? L'hai rapita e la stai tenendo in ostaggio?".
Kate si lasciò crollare seduta in fondo al letto, prendendosi la testa tra le mani, gemendo. Non era cambiato. Era sempre il solito, inopportuno, intempestivo Castle.
"Che c'è?", le chiese stupito. "Ho detto qualcosa che non andava? È troppo presto per scherzarci su?". Kate annuì vigorosamente, sbirciandolo tra le dita tese davanti agli occhi. La verità era che le veniva un po' da ridere, nonostante il tema e la situazione fossero poco adatti.
"Non ti manca l'azione?", si informò, più seriamente, questa volta. "Non ti annoi a stare dietro a una scrivania a riempire scartoffie?".
"Oh, in quanto a questo, sono un po' diversa rispetto ai capitani che mi hanno preceduto. Continuo a indagare sul campo tutte le volte che mi è possibile, e cioè quando non sono impegnata in qualche monotona riunione, cosa che accade piuttosto spesso, purtroppo". Si zittì per qualche istante, pensierosa. "Ho deciso di tentare l'esame perché avevo bisogno di orari più regolari, e di avere qualche serata libera in più per via del bambino", proruppe tutto d'un fiato, ritenendo di aver già tergiversato abbastanza. Aveva già deciso che non sarebbe uscita da lì finché non gli avesse comunicato dell'esistenza di suo figlio e preferiva farlo prima che arrivassero Martha e Alexis, che erano già partite alla volta dell'ospedale.
Come poteva tenerglielo ancora nascosto? Non aveva nessun motivo per farlo.
La vita defluì dal volto di Castle, rendendolo quasi cinereo. Kate lo esaminò confusa: non stava reagendo nel modo che si era aspettata. Anzi, peggio, non stava reagendo affatto.
"Oh". La fatica di pronunciare un semplice suono sembrò svuotargli completamente i polmoni e farlo afflosciare su se stesso. Kate si passò una mano sulla fronte, sentendosi impotente. Si trattò solo di qualche istante, perché Castle si impose subito di riprendersi.
"Quindi... hai un bambino. Congratulazioni!", esordì con voce fiacca, nella disperata ricerca di un po' di entusiasmo, che riteneva lei si aspettasse. "Quante belle novità", commentò debolmente, frase che suonò patetica e non briosa, come l'aveva intesa. Kate rise tra sé, avendo compreso il motivo per cui era così sconvolto.
"Castle...", iniziò, per chiarire la situazione, ma fu subito interrotta.
"Ti ringrazio di essere tanto gentile da dedicarmi il tuo tempo, Kate, ma se hai un bambino che ti aspetta che avrà... qualche mese, immagino, non è meglio se torni a New York? È davvero molto generoso da parte tua essere qui, ma mi sentirei meglio se tornassi dalla tua nuova famiglia...".
Ormai si era ridotto a blaterare, facendo ricorso a frasi pompose e un tono troppo formale. Kate si sentì in dovere di porre fine alle sue miserie. Ottenne il silenzio con un gesto.
"Non ho un bambino, Castle. Noi abbiamo un bambino. Tu e io. E ha un anno", spiegò orgogliosa, intenerita, euforica e in procinto di vomitare. Era fatta. La grande rivelazione era finalmente esplosa.
Peccato che tutti i fuochi d'artificio morirono ancora prima di essere lanciati in aria.
Castle la fissò ottusamente per un lungo istante. Nel silenzio stupefatto che seguì, Kate riuscì a sentire il vento del deserto soffiare tra le dune.
Dopo un tempo infinito, all'improvviso gli si imporporarono le guance, mentre, come i bambini, contava sulle dita, facendo i conti a ritroso.
Si rianimò di colpo, una volta conclusi i suoi calcoli. Si mise una mano sul petto, come se avesse ricevuto un colpo mortale, dal quale stentava a riprendersi, nonostante il pericolo fosse ormai alle spalle. "Vuoi uccidermi, Beckett?! Perché non me l'hai detto subito?! Ti considererò responsabile per il mio infarto. Pensavo fosse figlio di un altro!", la accusò sentitamente.
"Sei tu che hai preferito interpretare che avessi avuto un bambino con un altro uomo! Io non l'ho mai detto!", lo rimbeccò.
Quanto le erano mancati quegli scambi.
"Non ho preferito interpretare in questo modo", puntualizzò offeso. "Il fatto è che sono stato via a lungo, a quanto pare. E se anche sono d'accordo nel potermi definire, per molti versi, potente, se capisci cosa intendo...", le fece l'occhiolino, che fece nascere dentro di lei l'urgenza di strangolarlo, "Non potevo certo pensare di essere in grado di concepire bambini con te in mia assenza!".
Oh, Dio, pensò Kate. Non era cambiato per nulla. Confortante per certi versi, ma altrettanto spaventoso per altri.
"Perché quando è stato concepito, tu eri ancora presente", replicò con tono definitivo, ribadendo l'ovvio, perché fosse chiaro e per chiudere una volta per tutte la questione della paternità di Alex.
Castle chiuse gli occhi, per raccogliere le idee. Forse la notizia che gli era stata scagliata addosso con poca delicatezza, dovette ammettere Kate tra sé silenziosamente, stava acquisendo significato a poco a poco.
Li riaprì subito dopo, agguantandole una mano, di nuovo in preda alla frenesia, questa volta di segno completamente diverso.
"Noi abbiamo un bambino, quindi?", le domandò esaltato, in preda a una gioia incontenibile. "Come si chiama? Dove è? Perché non l'hai portato?".
"Sì, ce l'abbiamo", confermò con voce luminosa. Si era immaginata tante volte nell'atto di confessarglielo, ma la verità era che le era rotolato fuori senza essersi preparata in alcun modo, dimenticando le buone intenzioni e i piani accuratamente predisposti.  

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