Quattordici

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Quando uscirono dal distretto, l'affilato gelo invernale li colse impreparati, investendoli con la sua ferocia impietosa appena lasciarono il tepore confortevole del distretto.
Alzarono il bavero della giacca per ripararsi dalle rigide temperature scese in rapida picchiata nel corso della giornata, una delle più fredde della stagione.
Il sole era un cerchio pallido a malapena visibile sopra la linea dell'orizzonte, ancora incapace di provvedere a scaldare la città rattrappita su se stessa. Il vento si infilava sibilante tra i grattacieli e si intrufolava nei loro indumenti, facendoli rabbrividire.
Kate alzò la testa. Quel cielo plumbeo e desolato non prometteva niente di buono.
"C'è aria di neve, non trovi?", esclamò improvvisamente felice, rivolgendosi a Castle, mentre si incamminavano fianco a fianco, con Alex ben premuto contro il suo corpo, in un'istintiva forma di protezione contro le intemperie.
"E perché questa idea ti rende entusiasta? Devo essermi perso più cose del previsto. Un tempo odiavi la neve", replicò Castle, intirizzito accanto a lei con le mani in tasca e l'aria di aver bisogno di entrare in fretta in un luogo più riscaldato. Lei sembrava affrontare molto meglio le temperature polari. Per non parlare di Alex, che era vispo come un grillo e con le guance rosse, deliziato per l'improvvisata della madre e curioso di sapere cosa avrebbe portato in dono nella sua vita l'inaspettato cambio di programma, fiducioso e ottimista come sempre.
Kate fece una breve pausa, prima di rispondere alla domanda, all'apparenza priva di complicazioni. C'erano così tante cose che Castle non sapeva della persona nella quale era stata costretta a trasformarsi senza il conforto della sua presenza.
A ogni passo incespicavano in novità, che se erano per lei di poca importanza, non così dovevano apparire al Castle rimasto fermo a venti mesi prima. Da quando aveva cambiato idea sulla neve? Non lo ricordava di preciso. O forse sì, adesso che ci rifletteva.
Purtroppo non si poteva dire lo stesso di lui, che aveva perso più di un anno di vita. Dimenticato, perduto, non vissuto. Erano tutti sinonimi dolorosi.
Spostò Alex sull'altro fianco, sempre tenendolo in braccio e continuando a camminare con passo spedito per non farsi agguantare alle spalle dal freddo.
"Alex è nato durante una bufera di neve", gli comunicò laconica.
Castle si fermò, voltandosi nella sua direzione, l'interesse acceso nei suoi occhi.
"Sì, lo so, sembra l'incipit di un romanzo di Dickens, ma è andata così", aggiunse, un po' imbarazzata. Si sentiva sempre troppo esposta, troppo vulnerabile, quando si apriva su quel particolare argomento. Su se stessa. Sul loro bambino e sul viscerale rapporto – quello materno - che lo legava a lui, qualcosa che Castle, con tutta la buona volontà, non sarebbe stato in grado di immaginarsi perché sarebbe stato difficile anche per lei, fino a un anno prima.
Continuò solo dopo il suo cenno di incoraggiamento.
"Aveva iniziato a nevicare senza preavviso appena prima che uscissi di casa per raggiungere l'ospedale e nel giro di poco le strade erano diventate impraticabili. Nessuno riusciva a raggiungermi lì, nonostante tentassero di farlo, perché erano tutti bloccati nel traffico. Continuavano a mandarmi messaggi insistendo perché facessi la telecronaca del parto e inviassi foto di Alex appena nato. Questo appena prima che sapessero come l'avevo chiamato e mi prendessero in giro". Sbuffò al ricordo.
"L'avrei fatto anche io", rimarcò Castle, divertito dal suo racconto. Nessuno dei due accennò al fatto che, se lui fosse stato presente, non ci sarebbe stato bisogno di chiamarlo così.
"Tu avresti scelto un nome infinitamente peggiore", lo bacchettò, fingendosi offesa.
"Dimentichi che io ho scelto l'esatto identico nome per mia figlia", le fece notare con un sorriso ancora più ampio.
"Vuoi che ripetiamo ancora il discorso sulla mia poca fantasia nel dare nomi ai tuoi figli in qualche altra variante, Castle? Pensavo avessimo liquidato la questione". Si finse offesa.
Castle si mise a ridere di gusto. "No, mi va bene così. Ma non smetterò mai di prenderti in giro".
All'improvviso le sembrò una magnifica prospettiva.
Tornò serio. "Scusa. Non volevo interromperti. Continua". Era naturalmente avido di conoscere tutti i dettagli delle loro vite, nell'illusione di colmare vuoti che sarebbero per sempre rimasti tali.
"Non è un granché come storia". Kate si pentì di aver iniziato a parlargliene. "A un certo punto, dopo un tempo lunghissimo trascorso in camera a chiedermi perché in reparto mi avessero abbandonato, piena di adrenalina che mi rendeva impossibile riposare, sono arrivati a portarmi Alex, in mezzo a una fila di neonati urlanti. Me l'hanno dato in braccio e ci hanno piantati di nuovo in asso. Così abbiamo passato qualche ora insieme, io e lui, a conoscerci e a guardare la neve cadere dalla finestra accanto al mio letto, mentre io controllavo che stesse bene e non gli mancasse niente. Ecco perché adesso non trovo più la neve un fastidio poco sopportabile. Fine del racconto. Sembra la variante moderna di David Copperfield, lo so. Avanti. Ridi pure, se vuoi".
Non gli disse la verità. Che era stato un parto difficile. Che aveva avuto paura e che aveva tremato quando l'avevano lasciata da sola con un neonato di cui prendersi cura. Ci sarebbe stato tempo più avanti, per metterlo al corrente di dettagli meno che rosei. Almeno Alex non era nato di venerdì a mezzanotte.
"È una bella storia, invece", commentò Castle, intenerito e con il rammarico di non essere stato presente stampato in fronte.
"Quando è nato di preciso?", si informò Castle.
"A metà gennaio", rispose Kate, sorprendendosi nel rendersi conto che non glielo aveva mai detto.
"Quindi avete già festeggiato il suo primo compleanno?".
Non seppe come rendere la risposta meno amara. "Sì, qualche giorno prima che ti ritrovassero".
"È stata una bella festa?". Non sembrava dispiaciuto, o forse era solo molto bravo a nasconderlo.
Aveva avuto intenzione di fare una festicciola intima, ma tutti, al distretto, avevano voluto partecipare mandando doni e auguri e rendendolo un evento memorabile. Forse perché era il figlio del loro capitano, o forse perché erano dispiaciuti per la mancanza del padre, che in molti avevano conosciuto. Non avevano ancora finito di scartare tutti i regali. Giacevano ancora nel suo appartamento intonsi.
Era stato piacevole essere circondati da tanto affetto. C'era solo stato un velo di tristezza ad avvolgere l'evento, che lei si era permessa di esprimere solo una volta rimasta da sola nel suo salotto pieno di carta da regali.
Kate si fermò. Non era nella sua natura non prendere il tono per le corna.
"Ci saranno altri compleanni, Castle. E tu sarai presente", cercò goffamente di rincuorarlo.
"Mi spiace essermi perso alcune delle sue tappe importanti", spiegò Castle, come se ce ne fosse bisogno. Nessuno dei due riusciva mai a discostarsi da quel buco nero che li attirava nella sua orbita.
"Se può consolarti, io mi sono persa i suoi primi passi. Era con mio padre, mentre io facevo tardi al lavoro. Come vedi abbiamo avuto tutti le nostre occasioni mancate".
Le parole, espresse con il desiderio di rallegrarlo e alleggerire il suo fardello, non ebbero grande successo. Non ci fu però il tempo di proseguire la conversazione, perché erano finalmente arrivati davanti a Remy's.
Forse avrebbero dovuto scegliere qualcosa che non richiamasse alla mente momenti felici, ma, appena usciti dal distretto, si erano guardati e, con la loro solita telepatia, avevano esclamato all'unisono il nome del locale che un tempo avevano frequentato in modo assiduo, ancora prima di diventare una coppia.
Chissà che impressione doveva fargli tornare in quel luogo, rifletté Kate, una delle infinite varianti del medesimo pensiero che continuava a tornare a ossessionarla con regolarità.
Castle le tenne cavallerescamente aperta la porta, facendo passare lei e Alex. Il bambino si entusiasmò nel ritrovarsi in un posto familiare e salutò con grande trasporto il gestore del locale, che lo ricambiò con altrettanto calore.
Kate avrebbe voluto correre a nascondersi. Di fronte a quella scena così spontanea, Castle avrebbe di sicuro sospettato che Alex fosse figlio del barista. Non avrebbe mai smesso di darle il tormento, solo per il gusto di farlo.
Si sedettero al loro tavolo preferito, quello di un tempo, e quello che lei e Alex sceglievano sempre, quando era disponibile. Era in una posizione comoda, lontano dall'ingresso, ma con ampia vista sul viale trafficato che avevano appena percorso.
"Non dirlo", lo ammonì tuffando la testa nel menu che era arrivato con grande celerità. Alex aveva sorriso all'uomo parlottando a suo modo e l'altro era stato ad ascoltarlo con grande attenzione, cercando di decifrarlo e dargli una risposta coerente con i suoi discorsi. Castle aveva l'aria di qualcuno pronto a far saltare in aria l'intero edificio.
"Non so di che cosa tu stia parlando. Stavo solo cercando di capire se anche lui ha la stessa attaccatura di capelli mia e di Alex. Mi sembra di sì", annunciò pomposamente, come se avesse ricevuto un torto imperdonabile.
"Castle! Non vorrai ricominciare con questa storia", bisbigliò irritata, dandosi occhiate nervose in giro. Non era più tanto divertente. O forse un po' sì. Erano mesi che nessuno era geloso di lei.
"Non ricomincio con nessuna storia. Avrò anche perso la memoria, ma so riconoscere quando un uomo guarda intenzionalmente la mia fidanzata. Intendo dire una donna. Una donna che è al tavolo con me". Si era corretto incespicando, facendo confusione, senza riuscire a uscirne con la solita eleganza. Kate sorvolò sull'ultimo pezzo. Per il momento.
"Non mi guardava in nessun modo. È solo al corrente della mia storia, come chiunque altro in città e si è affezionato ad Alex, perché veniamo spesso qui. Probabilmente gli facciamo solo pena". Adesso non più, quantomeno.
"Certo. Pena. È così che si dice adesso? Una donna molto bella e incredibilmente intelligente, rimasta da sola con un bambino adorabile". Appoggiò una mano sopra la sua, proprio quella dove brillava il suo enorme anello di fidanzamento, che fece ruotare. "Non so lui, ma io avrei senz'altro voluto sposarla", mormorò stringendole il polso tra le dita, facendole saltare il cuore nel petto e riempiendola di languore.  

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