Trentaquattro

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"C'è un'altra cosa di cui vorrei parlarti".
Era stata una serata più che piacevole, trascorsa scivolando lievi da un argomento all'altro, ridendo molto e sorridendosi complici e timidi nelle pause di silenzio.
Castle le aveva concesso di riprendere possesso della sua mano solo quando le era stata necessaria per fare onore alle pietanze che erano finalmente arrivate.
Non che avesse molta fame. Era stata così nervosa per il loro incontro da avere ancora un po' di nausea annidata all'ingresso del suo stomaco.
"Sono pronta. Spara", replicò allegra mantenendo il tono leggero fin lì condiviso, appoggiandosi rilassata allo schienale della sedia con il calice di vino rosso pieno per metà in mano.
Doveva stare attenta a non bere troppo, si rimproverò, soprattutto se voleva rimanere lucida, anche se si sentiva già un po' brilla e la sensazione non era affatto spiacevole. O forse era l'effetto della vicinanza di Castle.
"Stavo pensando di ristrutturare il loft".

Il generale atteggiamento guardingo con cui Castle espresse un pensiero che doveva aver meditato a lungo, se lo conosceva almeno un po', la mise in allarme.
Appoggiò il bicchiere sul tavolo, per essere pronta alle successive rivelazioni, senza avere niente di contundente in mano.
"Perché? Non va bene così com'è?", si informò cercando di non cedere all'inquietudine anzitempo, nonostante Castle non avesse mai fatto cenno prima a intenzioni di quel tipo.
Non le piacevano i cambiamenti, ecco tutto.
Tanto meno se avevano luogo in una casa in cui aveva vissuto e che, nel suo immaginario, doveva sempre rimanere uguale a se stessa, anche se non la frequentava da quando era tornato.
"Vorrei ricavare uno spazio solo per Alex tra la mia camera e lo studio".
Il solo uso del pronome possessivo sbagliato – mia invece che nostra – le fece dolere un punto preciso nel petto, che pulsò impazzito.
Preferì non commentare finché non ne avesse saputo di più. Decisamente l'allegria si era dissolta nel giro di qualche istante.

"E a che cosa ti servirebbe?", si informò nascondendo la tensione dietro a un tono sommesso.
"Per quando rimarrà a dormire da me", spiegò Castle nutrendo grande interesse per le pieghe del tovagliolo, molto attento a non incrociare il suo sguardo.
Lei invece non gli staccava gli occhi di dosso, per cercare di comprendere il significato reale delle ultime esternazioni. A volte era convinta di avere davanti un estraneo.
Sentì un fiotto di bile risalirle l'esofago, bruciandolo. Tese le labbra, rimanendo in silenzio, affinché Castle procedesse senza il suo aiuto lungo la strada suicida su cui si era avventurato da solo.
"So che adesso è troppo presto per parlarne, ma prima o poi si sentirà abbastanza a suo agio con me per rimanere al loft fino al mattino dopo, non credi?".
No, non credeva. Affatto.
"Mi sembra che non sia qualcosa di cui dovremmo preoccuparci ora. Non credi?", borbottò irritata, facendogli il verso.
"È quello che penso anche io", convenne con quell'aria paternalistica che la mandava su tutte le furie. "Per questo voglio portarmi avanti. Ci vorrà un po' di tempo per progettarla e realizzarla. Vorrei che mi aiutassi a farlo, ti va?".
Ignorò completamente la sua richiesta di aiuto, fatta solo per blandirla e tirare acqua al suo mulino. Poteva benissimo arrangiarsi da solo.
"Non capisco perché non possiamo continuare come abbiamo sempre fatto. Non sta andando male, no? Che bisogno hai di volere che dorma a casa tua? Lo vedi già tutti i giorni", sbottò.
"Perché sono suo padre e fargli trascorrere del tempo a casa mia è quello che fanno i genitori nella nostra condizione".
"Quale sarebbe la nostra condizione? Cosa siamo, Castle? Genitori separati? È questo che vuoi insinuare?".
Era triste. E squallido. Non si meritavano un discorso del genere.
"No, Kate. Non siamo genitori separati. Siamo genitori che non vivono insieme e nostro figlio, per questo motivo, ha due case. E in una di queste – la mia – non c'è una stanza adatta a lui, cosa a cui voglio rimediare. Voglio solo che stia bene in entrambe le sue abitazioni, visto che passerà metà della sua vita quotidiana in ciascuna di esse. Quando verrà il momento, s'intende".
Non le interessava nulla della sua spiegazione infiocchettata da ragionevolezza che faceva passare lei per quella isterica. No, grazie.
Finse di non averlo sentito.
"Che cosa stai cercando di dirmi? Che vuoi l'affidamento congiunto? Vuoi andare in tribunale per decidere con chi passerà le vacanze di Natale? Quelle estive? È questo che vuoi?È questo che siamo?".
Aveva alzato la voce e fatto allontanare di corsa un cameriere che era sopraggiunto, ignaro della bufera in corso, a portare i loro dessert. Non ne aveva nessuna voglia di mangiare. Le si era chiuso lo stomaco.
La gente lanciava occhiate interessate verso il loro tavolo, speranzosa di cogliere qualche succulento frammento della discussione in atto.

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