CAPITOLO 46

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Lo chalet

Jennifer

L'aria fuori è ancora pungente, ma si sente che lentamente sta per arrivare la primavera. Lo noto dagli alberi, dall'erba, e dalle piantine nell'ingresso.

Dovrei sistemarle, dare a loro un aspetto decoroso, e magari aggiungere qualche colore. Mi guardo intorno vedendo possibilità. Quanto mi piacerebbe sistemare questo giardino e fare qualcosa per il vialetto, magari delle siepi o degli alberelli. «Aspettami qui, prendo l'auto», mi avvisa Matt, ma io sono completamente persa nei miei progetti.

Mia madre mi ha passato questa passione e aveva contagiato anche mio padre. Ricordo che tutta la mia infanzia è stata piena di piante, fiori e alberi. Mia madre se ne prendeva cura e m'insegnava tutti i trucchi per evitare di farle morire, per accudirle al meglio.

Mi diceva che anche loro erano forme di vita, che come noi nascevano, vivevano e poi morivano. In un ciclo continuo.

E noi dovevamo aiutarle in questo processo della loro vita.

Poi col tempo questa passione si è un po' affievolita, tra gli studi e poi il lavoro. Ma non ho mai perso la voglia di farlo. E ora che ho momentaneamente questo immenso giardino, potrei davvero fare qualcosa.

Qualche minuto dopo, davanti a me si ferma una grossa Jeep, che mi distoglie dai miei pensieri. Rimango sorpresa a guardare il colore militare dell'automobile. Non sapevo ne avesse una, è fantastica.

Esitante mi avvicino alla portiera del passeggero, apro la portiera e mi accorgo di quanto il sedile sia in alto. La apro e metto un piede sul battitacco, cercando di darmi la spinta necessaria per mettermi seduta, ma quando sto per farcela, sento una mano posarsi sul mio sedere. Dallo spavento salto in aria e perdo la presa con il bordo, cadendo fra le braccia di Matt.

«Ehi, calmati stavo solo cercando di aiutarti» dice, riportandomi in posizione eretta. Ringhio e gli lancio un'occhiataccia «non mi aiuti mettendomi una mano sul culo!».

Lui ride, e cazzo se è contagiosa e bellissima la sua risata.

Una volta assicurato di avermi fatto sedere correttamente, chiude la portiera e raggiunge il posto del guidatore.

«Sei sicuro di voler guidare? Se vuoi lo faccio io», mormoro con tutta l'intenzione di sbeffeggiarlo. So quanto tiene alla sua nomina di maschio alfa, che sa fare tutto. E la cosa è troppo irresistibile, per non usarla contro di lui.

Il suo sguardo corrucciato mi fa sorridere, e la sua voce altezzosa allenta un po' la mia ansia.

«Cosa vorresti dire, che non so guidare?» chiede, cercando di guardarmi serioso, senza riuscirci.

Scoppio a ridere e scuoto la testa «l'ultima volta che ti ho visto guidare mi sei venuto addosso, quindi sì, dubito della tua guida».
Mi guarda, come se fosse rimasto offeso dalla mia accusa e si mette una mano sul petto.

«Mi ferisci così, in quel momento ero scioccato, perché avevo appena ricevuto la notizia che dovevo sposarmi», si china su di me e mi lascia un bacio sulla guancia. Il mio respiro si mozza, e la sua bocca si sposta verso il mio orecchio.

«Forse, è stato il destino a farci incontrare».

Poi lasciandomi con le sue dolci parole nella mente, aziona l'auto uscendo dal cancello principale.

***

Dopo mezz'ora di viaggio, osservo il sole che lentamente sta calando, colorando il cielo di rosso che poi sfuma verso il rosa. «Non stiamo andando verso l'oceano e nemmeno verso il centro, mi vuoi dire dove mi stai portando?».

MIA PER 365 GIORNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora