Capitolo Due

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CAPITOLO DUE

Mario

26 agosto

Mi è sempre piaciuto guardare il cielo.

Anche se le persone molte volte non se ne accorgono, è pieno di sfumature.

I colori del mondo si mescolano tra di loro e creano delle combinazioni perfette. Qualche volta prevale il blu della notte, qualche volta la lucentezza delle stelle, qualche volta l'azzurro limpido delle belle giornate di sole, frastagliato dal giallo dei raggi che risplendono. Certe mattine e certe sere il cielo diventa addirittura rosa, arancione, viola. Altre volte, invece, prevale il grigio della nebbia o il nero della tempesta.

Ma non sono semplici colori gettati su quella immensa tela naturale.

Non sono colori puri.

Sono colori sporcati da altri colori.

Colori che si scontrano, che si cercano, che si rincorrono.
Colori che si trovano, si uniscono, combaciano alla perfezione e si amano.
Colori che si toccano di sfuggita, si scottano e si allontanano lasciando solo un piccolo e impercettibile segnale del loro incontro.
Colori che si intersecano, che danno vita a nuove tonalità e poi si dissolvono.

Ho sempre amato guardare il cielo.

E mentre osservo il panorama scorrere veloce fuori dal finestrino, sotto il mio sguardo vigile e stanco, mi rendo conto che, nonostante stia piovendo, i raggi tiepidi del sole stanno lottando per avere il sopravvento su questo cielo spento e bagnato.

Accanto a me, al volante, Giovanni canticchia qualche canzone che passa alla radio, senza cercare di intavolare conversazioni forzate. Butto lo sguardo su di lui e mi ritrovo a pensare che, in fin dei conti, è veramente l'unica persona che da anni mi sopporta, supporta e capisce. E vorrei dirglielo. Vorrei diglielo che sto apprezzando questo suo silenzio e questa sua discrezione, ma le parole non mi escono.

Getto la testa indietro, scontrandomi con il poggiatesta, e fisso la strada che rapida scorre sotto i nostri piedi.

Sono passati più o meno venti giorni da quando il mio capo ha scoperto il mio piccolo grande segreto. La mia piccola grande debolezza. La mia piccola grande dipendenza.

Avrei potuto negare, sbraitare, sputare fuoco.

Non l'ho fatto.

Non ne ho avute le forze.

Mi sono messo le mani sugli occhi e impaurito ho semplicemente sussurrato un "non so cosa dirti o cosa fare" che lui ha prontamente accolto come una tacita richiesta d'aiuto.

Quando sono tornato a casa, quella sera, sono ricaduto nella tentazione per togliermi di dosso quel senso di impotenza che provavo per essermi dimostrato debole e drogato davanti al mio datore di lavoro.
Anzi, non posso nemmeno definirla tentazione. Per me è qualcosa di molto di più.
E' ormai qualcosa di oltre.

E' un'esigenza irrefrenabile per affrontare la vita.

E non mi interessa prestare attenzione o pormi domande sulle conseguenze che possono derivarne. Serve a me. E' il mio sedativo, il mio calmante.

Senza sarei un uomo morto.

Quando la gente dice che la droga uccide, infatti, io rido.
Rido, perché la mia causa di morte, senza di lei, sarebbero state proprio le persone.

Da quel momento, per quattro giorni non mi sono presentato a lavoro con la scusa di essermi preso una piccola influenza estiva e mi sono riempito di dosi come mai prima. Giovanni, dal canto suo, ha riorganizzato i turni per coprire i buchi dati dalla mia assenza stando in silenzio il primo giorno, il secondo giorno, il terzo giorno e anche il quarto giorno. Quando la quinta mattina di fila ho chiamato in negozio per comunicare di stare ancora male, lui mi ha ripreso dicendomi di alzare il culo dal letto, mettere la divisa e correre al negozio, pena il mio licenziamento. So che l'ha fatto per me.

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