Capitolo Ventitré

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CAPITOLO VENTITRÉ
prima parte

Mario


16 novembre

"Non ti amo". Una semplice frase, tre parole, otto lettere. Eppure la sua voce mi rimbomba incessantemente nella testa ormai da più di 24 ore.

Lo sapevo: ero consapevole del fatto che stessimo viaggiando su due linee differenti, me l'ha sempre fatto capire. Ma non pensavo che sentirselo dire fosse così doloroso. Soprattutto perché quel "non ti amo" è arrivato subito dopo tutto quello che abbiamo vissuto e condiviso, e subito dopo le mie incertezze e insicurezze. E ha fatto male. Dio se ha fatto male! Ho sentito una spada conficcarsi nella mia pelle, penetrarla e smembrare ogni singolo tessuto del mio corpo, trafiggendomi da parte a parte. Poi l'ho sentita uscire con estrema lentezza e spingersi nuovamente dentro con forza e vigore per assicurarsi di aver lacerato ogni singola parte di me, per lasciarmi totalmente sanguinante e morente.

"Mi dispiace Mario... io... non so cosa provo. È... difficile per me", ha sussurrato al mio orecchio stringendomi forte come a volersi assicurare che non scappassi, "Però ti voglio bene, un bene sincero e reale. E ti prego di non compiere azioni affrettate, di non allontanarmi o chiuderti in te stesso come le altre volte, di cercare di capirmi e di capire quello che voglio dirti. Ho solo bisogno di tempo, forse", mi ha detto facendomi voltare tra le sue braccia per avermi di fronte a sé e potermi guardare negli occhi lucidi. Gliel'ho lasciato fare, incapace di muovermi da lì, e l'ho guardato nel volto leggendoci smarrimento, tristezza e sincerità.
"Ti sto dando tempo da due mesi...", gli ho ricordato, "posso aspettare ancora, lo sai che io ti a-", mi sono bloccato improvvisamente impaurito dai miei sentimenti non ricambiati, "ti lascio i tuoi spazi, non posso costringere qualcuno a provare qualcosa per me", gli ho detto serio, cambiando la rotta del mio discorso, con voce tremante, "se puoi, però, lasciami stare per qualche giorno. Io mi sono aperto a nudo con te, in tutti i sensi, e sai quanto sia stato faticoso. Per questo ti dico che adesso sono io ad avere bisogno di tempo per riflettere". E poi sono sceso a fare colazione, lasciandolo lì da solo.

Solo, come mi sento io ora mentre percorro questo lungo corridoio che mi porta nello studio del dottor Sommo, lo psicologo.

Solo, impaurito e smarrito, mentre cerco di affrontare il vuoto che mi riempie il petto e il sentimento che provo per il mio educatore.

Solo, pensieroso e assorto, mentre cerco di metabolizzare le sue parole e il fatto che non sa ancora cosa prova.

Solo, affranto e innamorato, mentre già lo vorrei di nuovo con me.

Perché è così. Ha fatto male, troppo male, ma non posso perderlo. E se non posso averlo nella mia vita come lo vorrei, mi accontento anche di avercelo nella mia vita e basta. Non so se potrà bastarmi per sempre, ma per ora me lo potrei far bastare. Mi farei bastare di averlo accanto nei momenti bui e in quelli belli, di avere la sua spalla su cui poter piangere qualora ne sentissi il bisogno, di avere le sue braccia forti a cui potermi aggrappare per non crollare di nuovo, di avere i suoi occhi in cui poter riporre tutte le mie speranze, di avere i suoi sorrisi ad illuminarmi le giornate.

Di avere lui, con o senza amore.


*


Seduto in uno dei grandi divani del salotto, osservo Claudio da lontano, impegnato a parlare e a ridere, nella stanza di fronte, con una ragazza ospite della comunità. Ride e vorrei odiarlo per come mette la lingua tra i denti, per come socchiude gli occhi, per come mostra i suoi denti bianchi. Eppure, nonostante tutto, non riesco a farlo.

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