Capitolo Tre

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CAPITOLO TRE

Claudio

27 agosto

Il suono fastidioso della sveglia rimbomba in tutta la stanza. Mi rigiro nel letto, allungo il braccio verso il comodino e a tastoni cerco il telefono per spegnere quella suoneria assordante. Fisso il soffitto bianco della mia camera per qualche istante, perso nei miei pensieri, e poi, con uno scatto repentino, mi alzo dal mio grande letto - forse troppo grande per essere occupato da una sola persona - e mi dirigo in bagno. Mi faccio una doccia veloce e faccio mente locale sugli impegni di oggi.

Tra le tante cose da fare e le varie attività da seguire alla comunità, mi ricordo che devo incontrare il nuovo arrivato, Mario. In realtà l'ho già incontrato ieri ma in una situazione diversa da quella in cui avrei dovuto conoscerlo. Avrei dovuto semplicemente avere un colloquio faccia a faccia con lui, iniziare a capirlo e raccogliere i dati per realizzare il progetto individuale rivolto solo ed esclusivamente a lui.

E' questo quello che faccio di solito. E' questo il mio lavoro. Anzi, solo in parte. Perché prima di essere un lavoratore sono un educatore e in quanto tale devo saper comprendere e sostenere l'altro, devo essere empatico, devo saper aiutare il mio educando, devo cercare di iniziare a instaurare un rapporto di fiducia reciproca per poterlo accompagnare in questo suo percorso di recupero.
Così, quando me lo sono trovato davanti in preda ad una crisi, ho dovuto gestire quella situazione e rimandare al giorno dopo quello che avrei dovuto fare da calendario.
D'altronde essere educatore è anche questo: essere disponibile e flessibile ai cambiamenti, essere reperibile quando qualcuno ha bisogno di te, essere in grado di gestire le situazioni difficili.
Essere educatori significa davvero tanto anche se molte persone nemmeno sanno dell'esistenza di questa figura professionale.
E io sono immensamente orgoglioso di quello che faccio e sono.
Amo aiutare le persone. Amo fare del bene perché mi fa stare bene.
Amo sapere che la gente può contare su di me se ne ha bisogno.
Amo sapere di essere un punto di riferimento per loro.
Amo impiegare il mio tempo a contatto con tante persone e amo condividere con queste il loro percorso e festeggiare la loro riuscita.

Esco dalla doccia, faccio velocemente colazione, mi lavo i denti, mi vesto.

Prima di uscire mi fermo davanti allo specchio ad osservare il mio riflesso e mi soffermo a guardare i tatuaggi che fuoriescono dalla mia t-shirt. Sorrido ripensando ad alcuni momenti che quelle macchie di inchiostro mi ricordano. Prendo le chiavi ed esco, chiudendomi la porta alle spalle.

*

Quando sono arrivato alla comunità, i miei colleghi - con cui lavoro in équipe - mi hanno comunicato che il nuovo arrivato non ne vuole sapere di parlare con qualcuno. Prima di me, infatti, questa mattina avrebbe dovuto incontrare il coordinatore terapeutico ed essere sottoposto ad alcuni semplici test di personalità e di diagnosi di eventuali patologie psichiatriche, ma il mio collega non è riuscito a farlo collaborare. Anche altri operatori hanno provato a parlargli e a convincerlo ad uscire dalla sua stanza ma, a quanto pare, con scarsi risultati. L'educatore che ha fatto il turno notturno, inoltre, ha lasciato dire che ha passato una notte molto difficile con Mario, il quale ha passato delle ore di totale perdita di controllo.

Così mi ritrovo a percorrere il corridoio che porta alla sua stanza un po' preoccupato e insicuro su come gestire questa situazione. Busso alla porta ma, esattamente come ieri, non risponde nessuno. La apro piano, chiedendo permesso, e lo vedo seduto di schiena mentre guarda fuori dalla finestra.

"Ciao, Mario."

Lo vedo sussultare appena mentre gira di scatto la testa nella mia direzione.
Gli occhi gonfi e rossi, le pupille dilatate. Lo sguardo sorpreso ma perso.

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