Capitolo Tredici

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CAPITOLO TREDICI
prima parte

Mario

25 ottobre

Cammino lentamente per le strade di Verona, guardandomi attorno entusiasta ed affascinato da ciò che mi circonda.

Mi sento come un bambino il giorno di Natale quando trova i regali sotto l'albero e la merenda lasciata a Babbo Natale tutta mangiucchiata.

Elettrizzato e felice.

Mi giro a guardare Claudio intento a parlare con un ragazzo che l'ha fermato per chiedergli delle indicazioni stradali e sussulto quando lo vedo ridere di gusto, a crepapelle, ad una battuta di quel tizio, gettando indietro la testa e premendosi una mano sulla pancia per cercare di contenersi.

Non l'ho mai visto ridere così.
Con me non lo fa mai.
Ride spesso, è vero, talvolta anche quando non dovrebbe, ma mai in questo modo, non con questo ardore.

Solo ora mi rendo conto che, probabilmente, quando sta con me si spegne. Perché io, con il mio carattere, non gli permetto di essere se stesso al 100%. Anzi, sicuramente faccio raffreddare tutto il suo calore e la sua gioia di vivere. E questo non è giusto. Non posso permettergli di annullarsi quando sta con me.. per uno come me.

Io voglio che lui rida come sta ridendo adesso sempre, perché è la cosa più bella che abbia mai visto e il suono più dolce che abbia mai sentito.

Continuo ad osservare la scena davanti ai miei occhi, catturando ogni singolo movimento di Claudio e riponendolo accuratamente nella mia memoria, finché un briciolo di rabbia si fa spazio dentro di me: il ragazzo con cui sta parlando gli posa una mano sulla spalla. Una mano sulla spalla del mio Claudio, e io sono costretto a voltarmi a guardare le vetrine dei negozi per non doverlo vedere assieme a qualcun altro che non sia io.

Stare chiusi giorno e notte in comunità non mi ha mai permesso di vederlo rapportarsi con altre persone al di fuori di quel contesto e sapere che nella sua quotidianità, nella sua vita reale, ride in questo modo grazie ad altre persone, senza di me, mi fa contorcere lo stomaco dalla gelosia e dalla possessività nei suoi confronti.

Così mi metto ad ammirare le vetrine dei negozi del centro città come se non le avessi mai viste prima: uscire dopo essere stati rinchiusi per due mesi sempre nello stesso posto mi fa capire quanto siano belle le cose semplici, quelle a cui non si presta mai attenzione e che si fanno in maniera meccanica.

Come passeggiare per le vie della propria città.

Non mi ero mai soffermato a respirare gli odori mischiati di Verona provenienti dalle varie botteghe, dal panificio, dalla pizzeria, dalla profumeria.
Non mi ero mai soffermato ad osservare la gente camminare e parlare animatamente con il proprio compagno o amico.
Non mi ero mai soffermato a guardare i bambini urlare e rincorrersi spensierati tra di loro, con i genitori pronti a rimproverarli se si allontanano troppo.

Semplicemente, non mi ero mai soffermato a scrutare la vita, troppo impegnato a squadrare la morte in tutte le sue forme e sfaccettature.

"Andiamo a fare un giro?"

Mi giro spaventato al tocco della sua mano sul mio braccio e della sua voce così vicina. Non me l'aspettavo, troppo immerso nei miei pensieri e nelle luci e nei dettagli di questa città. Mi metto una mano sul cuore come a voler fermare questo battito accelerato dallo spavento.

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