Capitolo Ventisei 2.0

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CAPITOLO VENTISEI
seconda parte

Claudio


"No Mario", dico afferrando i bordi del lenzuolo e tirandolo nuovamente giù, scoprendogli il volto distrutto. Gli occhi rossi e gonfi, le lacrime a scavargli il viso, le labbra martoriate dai denti. "Di chi hai paura?", gli chiedo un'altra volta, autoritario, abbassandomi sulle ginocchia per essere alla sua altezza.

Mi fissa a lungo, tremando, indeciso sul da farsi. E poi parla.
"Di Giacomo", sussurra chiudendo gli occhi.

Automaticamente li chiudo anche io, prendendo un gran respiro per non iniziare ad urlare come un pazzo e per cercare di calmarmi.

"In che senso?", provo ad approfondire il discorso, "Ti ha fatto qualcosa?", dico piano, provando a non agitarmi al solo pensiero che possa averlo sfiorato fisicamente o psicologicamente.

"Mario...", lo richiamo un po' più dolcemente, dopo davvero troppi istanti di silenzio, "guardami", dico tirando indietro alcuni ciuffi di capelli che gli sono ricaduti davanti agli occhi.

"Non- non voglio sembrare una vittima", e capisco che le mie parole l'hanno ferito più di quanto pensassi, più di quanto volessi.

Lo guardo raggomitolato su se stesso sotto le coperte, a pezzi, e mi rendo conto che c'è veramente qualcosa di grave che non va.
Il cuore mi si stringe in una morsa stretta stretta e il mio cervello smette di funzionare.
Mi siedo sul bordo del suo letto prendendogli il viso tra le mani, iniziando ad asciugarglielo con i palmi e iniziando a lasciargli dei piccoli baci in ordine sparso.
"Non sembri una vittima", lo rassicuro prima di lasciargliene uno sul naso. "L'ho detto solo perché sono arrabbiato, ma non lo penso". Annuisce impercettibilmente, poco convinto, prima di aprire gli occhi gonfi. Gli lascio un bacio sull'occhio sinistro e un ultimo sotto l'occhio destro, e poi mi stacco.

"Ti ha fatto qualcosa?", gli chiedo nuovamente. L'ansia che mi divora le membra.

"N-no. Non ancora", specifica mordendosi le labbra per non piangere.

"Cosa vuol dire "non ancora"?", gli domando allarmato.

"Non ti arrabbiare", mi dice con tono di supplica e con lo sguardo di chi non ce la fa più. È letteralmente sfinito, come se avesse combattuto una guerra, e mi piange il cuore vederlo così.

"Cosa sta succedendo, Mario?", gli chiedo spostando leggermente le coperte per trovare la sua mano e incastrare le sue dita tra le mie per infondergli un po' di forza e un po' di coraggio.

"Volevo parlarti di- di questo prima, ma poi ti sei arrabbiato e non sono riuscito a continuare", mi spiega prima di proseguire: "ti giuro che io non gli ho detto altro, non avrei mai potuto farti correre il rischio di perdere il lavoro", deglutisce rumorosamente fermandosi qualche secondo.

"Ti credo, Mario. Mi dispiace averti aggredito prima, ho pensato solo a me stesso mentre me lo dicevi...", gli confesso dispiaciuto. "E solo adesso mi rendo conto che in tutti questi mesi non mi sono mai accorto del tuo bisogno di avere qualcuno con cui parlare della nostra situazione. Non avevo mai pensato che come io avevo bisogno di sfogarmi con Paolo, magari anche tu avevi bisogno di un amico fidato a cui raccontare i tuoi pensieri o a cui chiedere consiglio. Sei stato anche troppo bravo", gli dico a mo' di scusa per averlo trattato male, stringendo un po' di più la presa attorno alla sua mano.

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